sabato 25 luglio 2009

Una repubblica fondata sulle rendite

Per un articolo di qualche tempo fa mi sono messo in caccia di un libro di Geminello Alvi, economista un tempo in forza alla Banca d’Italia e ora libero pensatore felice nel natio Montefeltro, con cui abbiamo condiviso l’entusiasmante avventura di «Falce e carrello» di Bernardo Caprotti. Non volevo credere che a soli tre anni dalla pubblicazione non si trovasse una copia di «Una repubblica fondata sulle rendite» da nessuna parte, Feltrinelli, Fnac, Libraccio, neppure sugli internettiani Ibs e Bol. Mondadori mi ha confermato di non aver provveduto alla ristampa dopo aver esaurito la tiratura prevista. Sono dovuto ricorrere a una biblioteca civica e finita la lettura ho fatto le fotocopie, perché a quel volume penso che dovrò ricorrere ancora. Quando uscì, il lavoro di Alvi fu accolto da critiche largamente favorevoli. Già allora mi colpì l’originalità della tesi: il lavoro degli italiani non è più basato sul loro lavoro, sulla capacità di, fabbricare, inventare e costruire, ma sui frutti del lavoro passato. Rendita significa l’affitto di un immobile o di un terreno, gli interessi sui Bot o i dividendi delle azioni, ma soprattutto le pensioni. Un’economia basata sulle rendite è un paese per vecchi, tanto per abusare di un luogo comune. Vivere di rendita: come i bamboccioni o quelli che aspettano che il lavoro piova dal cielo, ma anche tante famiglie che senza l’aiuto dei genitori o dei nonni non arriverebbero a fine mese. Geminello scorribanda tra euro che impoverisce e pubblica amministrazione che impantana, tra salari e oligarchie, pil e Maastricht. Si muove tra le statistiche come un subacqueo nel Mar Rosso. La sua tesi è sconfortante, ma l’intento è buono: «liberare vita da quanto pare più morto, ovvero le percentuali e i calcoli di denaro». Una spruzzata di speranza. Ce ne vorrebbero di più.
Stefano Filippi

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