Per un articolo di qualche tempo fa mi sono messo in caccia di un libro di Geminello Alvi, economista un tempo in forza alla Banca d’Italia e ora libero pensatore felice nel natio Montefeltro, con cui abbiamo condiviso l’entusiasmante avventura di «Falce e carrello» di Bernardo Caprotti. Non volevo credere che a soli tre anni dalla pubblicazione non si trovasse una copia di «Una repubblica fondata sulle rendite» da nessuna parte, Feltrinelli, Fnac, Libraccio, neppure sugli internettiani Ibs e Bol. Mondadori mi ha confermato di non aver provveduto alla ristampa dopo aver esaurito la tiratura prevista. Sono dovuto ricorrere a una biblioteca civica e finita la lettura ho fatto le fotocopie, perché a quel volume penso che dovrò ricorrere ancora. Quando uscì, il lavoro di Alvi fu accolto da critiche largamente favorevoli. Già allora mi colpì l’originalità della tesi: il lavoro degli italiani non è più basato sul loro lavoro, sulla capacità di, fabbricare, inventare e costruire, ma sui frutti del lavoro passato. Rendita significa l’affitto di un immobile o di un terreno, gli interessi sui Bot o i dividendi delle azioni, ma soprattutto le pensioni. Un’economia basata sulle rendite è un paese per vecchi, tanto per abusare di un luogo comune. Vivere di rendita: come i bamboccioni o quelli che aspettano che il lavoro piova dal cielo, ma anche tante famiglie che senza l’aiuto dei genitori o dei nonni non arriverebbero a fine mese. Geminello scorribanda tra euro che impoverisce e pubblica amministrazione che impantana, tra salari e oligarchie, pil e Maastricht. Si muove tra le statistiche come un subacqueo nel Mar Rosso. La sua tesi è sconfortante, ma l’intento è buono: «liberare vita da quanto pare più morto, ovvero le percentuali e i calcoli di denaro». Una spruzzata di speranza. Ce ne vorrebbero di più.
Stefano Filippi
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