mercoledì 4 maggio 2011

Dio, patria, famiglia

«La beatificazione del Papa e la fol­la dei devoti a Roma, l’intervento in Libia e il compleanno d’Italia, il matrimonio nella famiglia rea­le inglese in mondovisione, il ri­nato patriottismo Usa dopo la morte di Bin Laden. Quattro even­ti planetari in una sola settimana hanno riacceso in forme diverse le luci su un’antichissima trinità: Dio, patria e famiglia. Era da tem­po che non si rivedevano insie­me. Che fine hanno fatto Dio, patria e famiglia? Sono stati per secoli l’orizzonte di vita e di senso dei popoli, poi si sono ritirati nel ruolo di bandiera ideale per movimenti conservatori e tradizionali. Ora sanno di arcaico e finito, servono più per etichettare posizioni antiquate altrui che per rivendicare le proprie. Con che cosa furono sostituite? Potremmo rispondere con nulla, o con il nulla eretto a orizzonte. O, storicamente, che furono sostituite con libertà, eguaglianza e fratellanza. O più semplicemente che furono barattate con l’individuo, i suoi diritti e la libertà sovrana di sentirsi cittadino del mondo, senza legami a priori. Sembra impossibile pensare a Dio, patria e famiglia. Chi li vive non li pensa e chi li pensa li ritiene già morti. Eppure Dio, patria e famiglia occupano ancora il pensiero supremo di metà umanità e la loro orfanità è avvertita come un vuoto dall’altra metà. Dio, patria e famiglia popolano i pensieri reconditi, i ricordi e i rimorsi più forti, animano l’arte,il sogno e la letteratura,resistono come nostalgia e sentimenti. Perché occupano rispettivamente la sfera del pensiero e della fede, della vita pubblica e civile, della vita intima e sentimentale. Si chiamano in modi diversi; per esempio senso religioso, senso comunitario e senso delle radici. L’uomo ha tre dimensioni originarie, che sono la sua umanità, la sua natura e la sua cultura: la dimensione verticale che ci spin-ge a tendere verso l'alto, la dimensione orizzontale che porta a situarci in una comunità e la dimensione interiore che induce a ritrovarsi nelle origini. In questo triplice viaggio verso il cielo, la terra e le radici, ci imbattiamo in figure e presagi che richiamano Dio, patria e famiglia. E se fosse necessario ripensarli e riviverli nel nostro presente e nel futuro prossimo? Se nascessero dalla loro scomparsa la presente disperazione, il cinismo e gli abusi, le paure e le chiusure? Se avessimo bisogno di quell’orizzonte per essere uomini e per legarci davvero tra noi? Davanti alla tabula rasa bisogna tornare all’abc. Come si possono pensare oggi Dio, patria e famiglia con la sensibilità del presente, senza tornare al passato? In primo luogo attraverso la libera scelta, nessun automatismo imposto da natura o storia, autorità o legge. Ma una libera e radicale scommessa tra caso e destino, tra libertà di assegnare significato o no all’origine, ai nostri legami, al nostro senso del sacro e del divino. Abbiamo bisogno di dare un senso alla vita, riconoscendovi un disegno intelligente; poi di avvertire un luogo come la nostra casa, la nostra matrice; quindi di nutrire legami speciali di comunità e tradizione. In secondo luogo dobbiamo risalire dalla buccia al midollo, all’essenza di quel senso religioso, comunitario e delle origini. Con amore totale per la verità, costi quel che costi, non cercando coperture retoriche e rassicuranti bugie. È onesto pensare che le forme storiche, lessicali e rituali in cui si manifestano Dio, patria e famiglia possano morire e mutare. Ma il tramonto di alcune fedi secolari, di convinzioni e strutture, non significa la fine di quegli orizzonti e del nostro bisogno. È importante distinguere tra le forme che passano e i contenuti che restano; capire cosa salvare, cosa rigenerare e cosa lasciar morire. In terzo luogo, oggi Dio, patria e famiglia vanno pensate non solo in loro presenza ma anche in loro assenza, attraverso la loro mancanza, e gli effetti che questa produce. Non possiamo negare che si tratta di princìpi sofferenti, sempre più cagionevoli e incerti. Non possiamo chiamarci fuori, fingere una purezza che non abbiamo; dobbiamo saper riconoscere che nella loro penuria ci siamo dentro anche noi, fino al collo; scontiamo anche noi cadute e incoerenze. Non ci sono incontaminati guardiani dell’ortodossia e dell’osservanza; anche noi esitiamo e spesso voltiamo le spalle. Dunque, nessuna pretesa di superiorità e di purezza rispetto agli altri; sia questa ragione di realismo e umiltà popolare.

In quarto luogo va tenuto a mente che nessuno può imporre il monopolio, il primato, l’esclusiva, del suo Dio, della sua patria e della sua famiglia. Amare Dio, patria e famiglia non vuol dire negare quelli degli altri; ma rispettarli tutti, a partire dai propri. Se neghi il Dio, la patria e la famiglia degli altri, neghi i tuoi. Se neghi ogni dio, ogni patria e ogni famiglia, neghi l’umanità, la dignità e l’identità tua, altrui e del mondo da cui provieni. Chi rinfaccia gli orrori compiuti in nome di Dio patria e famiglia, confonde la malvagità umana con i pretesti in cui è stata rivestita nei secoli. Anche la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e i diritti umani sono stati usati per imporre il terrore giacobino, le dittature comuniste, il fanatismo ateo; contro Dio, patria e famiglia. Infine, i corollari: via la cupa ortodossia, meglio l’ironica leggerezza. Via la scolastica ripetitiva, meglio l’educazione popolare a quei principi. Via il superbo individualismo o la sua variante settaria, meglio iscriversi nell’alveo popolare di un comune sentire e di una tradizione provata dall’esperienza. Non so se questo basterà per rigenerare nel tempo presente e in quello che viene l’amor patrio,familiare e divino. Ma non vedo altro all’orizzonte che meriti di suscitare passioni ideali e nulla che ricordi davvero la storia e la vita autentica, la cultura e la natura dell’uomo. Se fosse questo il compito ideale e civile, politico e morale di oggi? Pensateci, perlomeno. Per non morire nemocristiani, cioè figli di nessun cristo.»

M.Veneziani

Eredi

«Subisce il termine "erede" la stessa sorte di tanti altri preziosi "nomi", che la chiacchiera quotidiana consuma e dissipa. Si fanno merci anch'essi, il cui valore è relativo esclusivamente all'utilità che se ne ricava. Siamo eredi che ignorano l'essenza più nobile della nostra eredità: il linguaggio – e lo massacriamo come fosse un mero strumento a nostra disposizione. Siamo, sotto questo aspetto, eredi che non sanno parlare, infanti, nepioi, dice il Vangelo. Eppure, proprio l'essere-eredi rappresenta per San Paolo il nostro "titolo" più alto: se siamo figli, siamo eredi (kleronòmoi), eredi di Dio, co-eredi di Cristo. Ma il figlio sa rivolgersi al padre, sa liberamente fare ritorno a lui – e allora soltanto eredita. Non si è "naturalmente" eredi, nessuna semplice nascita garantisce l'eredità – così come non conosciamo la nobiltà del linguaggio solo perché abbiamo ascoltato parlare la mamma. Erede sarà colui che riconosce in sé, come costitutivo del proprio sé, la relazione col padre, e cerca di esprimerla in tutta la sua tremenda difficoltà. Se è così, allora proprio l'erede sarà chi, "all'inizio", avverte la propria mancanza, la propria solitudine. Si fa erede soltanto colui che si scopre abbandonato. Hereslatino ha la stessa radice del greco kheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Può ereditare, dunque, solo chi si scopre orbus, orphanos (stessa radice del tedesco Erbe). Per essere eredi occorre saper attraversare tutto il lutto per la propria radicale mancanza. Così, per San Paolo, non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo – il che significa: attraverso la imitazione della sua Croce. Nulla forse ci è più estraneo di questa idea di eredità. Per quanto essa possa essere balenata nell'Umanesimo più filosoficamente e teologicamente audace, i grandi figli della modernità non si riconoscono più come veri eredi. L'eroico idealismo della nuova scienza e della nuova filosofia è dominato da homines novi, dall'idea di "uomo nuovo", che si infutura da sé, in base a ciò che egli stesso ha scelto di essere. L'"uomo nuovo" è un orfano felice. L'eredità non ha per lui alcun interesse sostanziale. Illusioni, favole, saperi inutili, di cui liberarsi in ogni modo. Figli siamo costretti a nascere, ma il figlio sarà davvero tale, cioè liber, quando saprà rifiutare d'essere erede. Le grandi visioni del mondo storicistiche non contraddicono affatto, nell´essenza, questo formidabile paradigma "progressivo". Il loro richiamo alle "radici", al fondamento di ogni sapere nei linguaggi "ereditati", alla necessaria connessione degli eventi, è tutto dominato dal presupposto che la storia, ora, nel nostro tempo, riveli un suo senso e un suo fine. Possiamo allora, sì, dirci eredi – ma eredi che "superano" in sé il padre. Quest'ultimo è divenuto, per così dire, il combustibile della nostra storia. Non l'erede fa ritorno a lui, ma è lui a consumarsi come alimento della vita nuova dell'erede. L'erede è "pieno" del padre, orbo di nulla, ma, anzi, occhio onniveggente. Allora anche la domanda sulle "radici" assume questo "prepotente" aspetto: quale paternità abbiamo meglio assimilato, quale ci risulta più utile per "progredire", quale ha più efficacemente funzionato da combustibile? E se una non basta, mescoliamole un po'… Padri "a disposizione" sul mercato dei beni-valori-merci. Che di fronte al formidabile dispositivo teleologico che informa di sé questa visione della storia e questa idea di eredità risultino del tutto impotenti sedentarie erudizioni, la cura meramente conservatrice del "così fu", dovrebbe risultare ovvio. Il passato diviene davvero una gabbia che impedisce di fare storia non appena si riduce a semplice "participio passato". Qualsiasi religio del passato, in questo senso, nega l'essenza di quell'erede, che vuole fare ritorno, ma che alla luce di questo ritornare concepisce il proprio stesso procedere. Qui consiste il paradosso dell'autentico erede: erede nomina una dinamica, dal riconoscimento di un proprio, essenziale,mancare, attraverso la ricerca di una relazione che possa presentarsi altrettanto determinante per il proprio carattere, fino al riconoscersi in essa. Eredità non significa "caricarsi" di contenuti dati, presupposti, ma ricercare il proprio stesso nome nell'interrogazione del passato. Eredità non significa assumere dei "beni" da ciò che è morto, ma entrare in una relazione essenziale, non occasionale, non contingente, con chi ci appare portante passato. Ma una tale relazione potrà essere voluta soltanto da chi si sente, da solo, in quanto semplice "io", deserto, mancante, impotente a dire e a vedere.

La chiacchiera dominante concepisce la ricerca di eredità esattamente all'opposto. Come ricerca di fondamento e di assicurazione. Mille volte meglio, allora, il gesto prepotente di quei "padri" che pretendevano di potersi "decidere" da ogni passato. Poter essere eredi comporta, invece, provareangoscia per una condizione di sradicatezza o di abbandono, porsi, su un tale "fondamento", all'ascolto interrogante del "così fu", cogliere di esso quelle voci, quei simboli che ci siano riconoscibili come relazioni essenziali, costitutive della trama del nostro stesso esserci. Dinamica arrischiata quanto altre mai, poiché il passato può sempre inghiottire chi se ne cerca erede, e in particolare proprio colui che presume di potersene appropriare. Erede è nome di una relazione massimamente pericolosa, il cui senso è oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici, quasi a voler fare del figlio l'automatico erede, e idee sradicanti, se non deliranti, di libertà, e cioè di un essere liberi in quanto assolutamente non destinati alla ricerca di essere eredi, di un necessario rapporto con l'altro da sé. Non solo non cerchiamo di essere eredi, ma accogliamo soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che ci rassicurino ancor più nella nostra pretesa "autonomia" – quando qualsiasi eredità è "partecipabile" per definizione. Ma ciò che è dimenticato non per questo è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di "erede" in tutta la pregnanza che nella nostra lingua, ancora, nonostante tutto, si custodisce.»

M.Cacciari

Earth is doing well

martedì 3 maggio 2011

Vendetta, giustizia

La vendetta, legge della frontiera che l’America ha e l’Europa teme

"Justice has been done”, giustizia è fatta:rimarranno queste parole a simbolo dell’America che con determinazione feroce ha rincorso nel tempo, braccato sulla terra e infine giustiziato lo scellerato che aveva osato entrare nella sua casa e trucidare i suoi figli. E’ l’America dei “pale rider”, di quella cultura che crede che la giustizia sia un dovere e la vendetta gioia liberatoria. E’ la condizione che permette a una società aperta di sopravvivere e di rafforzarsi, è il riaffermare lo spirito della frontiera su cui riposa parte della grandezza americana e che l’Europa non ha mai conosciuto e per questo dileggia o teme. Il terrorismo è per definizione una questione simbolica: nessuno che abbia praticato o pratichi questa forma di deterrenza del debole nei confronti del forte, di ricatto della minoranza nei confronti della maggioranza, può ragionevolmente pensare che basti a piegare una società, a fiaccarne la volontà, a intaccare il suo comune sentire, a disarticolare l’organizzazione del potere, in una parola a vincere.

Non lo pensavano nemmeno gli anarchici che terrorizzarono le monarchie europee del secolo scorso: anche loro erano consapevoli che ucciso il re, ucciso lo zar, altri ne avrebbero preso il posto. L’assassinio politico dunque non è mai stato mezzo di trasformazione materiale della realtà ma soltanto allusione simbolica, attimo e immagine folgorante che mostra una liberazione possibile e subito scompare come un flash nella notte. L’apice, il simbolo più tragicamente luminoso della potenza di un movimento terroristico, contiene in sé anche le ragioni della sua debolezza e della sua inevitabile sconfitta, poco importa quanto sia lunga, sanguinosa, spettrale la coda. Una volta che ha messo il nemico in ginocchio e constatato che è capace di rialzarsi reagire e rafforzarsi, il terrorismo non sa fare altro che riproporsi in modo compulsivo e sempre più impotente. E’ stato così sotto tutti i cieli e in tutte le epoche, anche quando i fenomeni non sono nemmeno lontanamente comparabili. In Italia, per tutti gli anni Settanta, il partito armato colpisce nel mucchio dell’organizzazione statale, poliziotti, funzionari, magistrati, figure politiche di secondo piano, sindacalisti prima di dispiegare la massima potenza in via Fani, sequestrando Aldo Moro e uccidendo gli uomini della scorta. Prima dell’11 settembre 2001, Bin Laden ha già colpito più volte ma è con l’attacco alle due torri, nel cuore finanziario della superpotenza, che irrompe sulla scena internazionale e penetra nell’immaginario delle folle musulmane.

Due eventi catastrofici che prendono di sorpresa l’Italia di allora e gli Stati Uniti di oggi, anche se entrambi hanno avuto qualche sinistro segnale su cui riflettere. Le democrazie, per il modo stesso in cui funzionano, possono avere momenti di cecità. Nello sgomento però entrambi prendono consapevolezza del pericolo e reagiscono. Con questa differenza: che l’America ha cercato in modo forsennato l’immagine positiva, che richiudesse la parentesi qaidista e ne decretasse simbolicamente la fine. Ci ha messo dieci anni ma è riuscita nell’impresa. L’Italia no. Nella cultura della vecchia figlia della vecchia Europa non c’è la chiusura dei conti, non c’è la determinazione a punire in modo esemplare: l’Italia un po’ punisce, un po’ sorveglia, un po’ perdona, un po’ dimentica. La fine della cosiddetta lotta armata endogena è in chiaroscuro, parole in eccesso e bolse di retorica che non assurgono perciò a valore di simbolo e non restano nella memoria. Le immagini sono confuse, sovrapposte, non hanno il nitore sinistro di quelle che illustrano la fase montante del terrorismo, l’autonomo che con il volto coperto dal passamontagna impugna la pistola a braccia tese, solo, in una strada di Roma, quella via Fani o della R4 in via Caetani dove fu ritrovato il corpo di Moro.

Non ci sono immagini altrettanto forti che scandiscono la fine del terrorismo. Quando le teste di cuoio del generale Dalla Chiesa fanno irruzione in un appartamento di via Fracchia, a Genova, e crivellano di colpi nel sonno cinque brigatisti, azione premeditata e spietata ma politicamente intelligente, la scena rimane inaccessibile a giornalisti e fotografi per molte settimane: l’Italia che decide di “terrorizzare i terroristi” vuole che tutti sappiano ma che nessuno veda. Possiamo immaginare invece cosa l’America avrebbe saputo costruire attorno a un simile successo della forza legittima, come avrebbe saputo trasformare un’esibizione spudorata in riaffermazione di sé, in simbolo potente cioè in storia, come le foto del Marshall in bella posa con il cadavere del fuorilegge ai piedi, come Dillinger riverso sul selciato, senza nemmeno la pietà del lenzuolo bianco. Sappiamo anche che l’America sa affrontare il clima di paura e non teme rappresaglie e ritorsioni: anzi, il pericolo la rende più determinata a chiamare le cose con il loro nome, nemici i nemici, tortura la tortura ed esecuzione un’esecuzione. Se l’Italia del tempo avesse voluto fare dei morti di via Fracchia il simbolo della propria forza, possiamo solo immaginare come avrebbero reagito tanti intellettuali, la sinistra da centro storico, i moralisti al tartufo bianco: spettacolo inverecondo, nauseante. Per questo non c’è un’immagine che chiuda davvero i cosiddetti anni di piombo, un simbolo che scoraggi sprovveduti imitatori, un’immagine che ci faccia dire ebbene sì, questi siamo noi, paese civile, tollerante ma feroce nella difesa di alcuni principi. Per questo quella stagione luttuosa è arrivata fino agli albori del millennio e sembra che covi ancora sotto la cenere, per questo sembra che il passato risucchi indietro il presente. Per questo si gioca con le parole, missione armata sì ma umanitaria, un po’ di guerra ma non del tutto, viva la piazza araba che chiede democrazia e non fondamentalismi. Per questo applaudiamo sempre in modo tiepido e con riserva mentale i successi dell’alleato potente, proprio come fanno i francesi. Bravi sì, ma dai, in fondo quel Bin Laden non contava più nulla, era politicamente moribondo. Per questo l’hanno venduto e chissà poi chi l’avrà venduto.

L.Pace