sabato 22 ottobre 2011

Onore e armi in pugno


Onore e armi in pugno. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure per fecondare l’Africa.
Sarà tutto tempo perso, dunque, sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.
Come i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato.
Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco. La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza.
Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. L’unica cruda verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’ veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta specializzata.
Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Quando gli eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar, restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse preghiera e romitaggio.
Come c’erano una volta i nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro l’onore delle armi, offrire loro un sudario.
Sempre hanno saputo morire i nemici. E tutti quei corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti, tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa generosità, mette a nudo la nostra menzogna.
A ogni pozza di sangue corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che fare le dà un’altra pestata, non si sa mai. Così come il black bloc, anche Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere solo canaglie. La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire.
P.Buttafuoco

mercoledì 19 ottobre 2011

Cara Italia

''Caro Primo Ministro, Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorita' italiane per ristabilire la fiducia degli investitori. Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che ''tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali''.

Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilita' di bilancio e alle riforme strutturali. Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti. Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di piu' ed e' cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualita' dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano piu' adatti a sostenere la competitivita' delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.

a) E' necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.

b) C'e' anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi piu' rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.

c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori piu' competitivi.

2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilita' delle finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorita' italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. E' possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo piu' rigorosi i criteri di idoneita' per le pensioni di anzianita' e riportando l'eta' del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, cosi' ottenendo dei risparmi gia' nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.

b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sara' compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.

c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorita' regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. Vista la gravita' dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda piu' stringenti le regole di bilancio.

3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacita' di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'e' l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali. Confidiamo che il Governo assumera' le azioni appropriate. Con la migliore considerazione, Mario Draghi, Jean-Claude Trichet. - 5 agosto 2011

domenica 2 ottobre 2011

sabato 23 luglio 2011

Oriana la liberale

Xenofoba, razzista, intollerante, violenta, ignorante, sgangherata, semplicistica. Mentre vendeva tre milioni di copie, la Trilogia di Oriana Fallaci (La Rabbia e l’Orgoglio, La Forza della Ragione, Oriana Fallaci intervista se stessa. L’Apocalisse) fu accolta con questi giudizi da colleghi (a esempio, Tiziano Terzani, fan di Pol Pot), storici (Franco Cardini, cattolico innamorato di Maometto) e scrittori (Valerio Evangelisti, ammiratore dell’assassino Cesare Battisti). Dalle parole si passò ai fatti giudiziari: in nome del politicamente corretto alcuni processi-farsa furono istruiti contro la Fallaci a Parigi, in Svizzera, a Bergamo. Gli attuali custodi della libertà d’espressione, all’epoca non trovarono nulla da obiettare.
Sono trascorsi dieci anni da La Rabbia e l’Orgoglio, cinque dalla morte dell’autrice. Oggi tutti riconoscono la grandezza della Fallaci, anche chi ha passato il tempo a denigrarla, a patto di rimuovere gli ultimi libri ritenuti ancora «impresentabili». La vulgata è questa: fu una grande donna moderna e illuminata fino a quando prese ad attaccare il mondo arabo. Quella – ci ha spiegato Monica Guerritore in un recente spettacolo teatrale – non era più la «vera» Fallaci. Era piuttosto una vecchia malata, colma di rancore e vittima della solitudine. È uno dei due artifizi con i quali mortificare l’originalità di Oriana Fallaci, rendendola inoffensiva. L’altro, meno grave e incoraggiato dalla scrittrice stessa, è definirla «anarchica». Titolo in Italia conferito sempre a sproposito a chi non rientra nei consueti schemi politici. Lei ci scherzava, quando minacciava di chiamare i suoi amici anarchici per far saltare in aria eventuali minareti irrispettosi del paesaggio toscano. L’anarchia però è cosa seria e ha connotazioni precise sia a sinistra sia a destra.
Piuttosto Oriana Fallaci si muove, con la massima consapevolezza, all’interno del pensiero liberale. Sempre. Anche quando carica a testa bassa il Corano e i suoi seguaci. Ma quale razzismo... L’anarchia poi non c’entra un fico secco, come testimonia la sua ammirazione per una certa idea di Stato e per una certa classe politica: più volte, nella Trilogia e nel romanzo Un cappello pieno di ciliege, emerge la passione per il Risorgimento e la destra storica. C’è poi la Fallaci ex staffetta partigiana delle formazioni di Giustizia e libertà. Antifascista ed egualitaria, pronta però a scrivere che troppa uguaglianza conduce al collettivismo e uccide la libertà. Lontana quindi dalle idee socialiste che hanno avuto successo tra gli azionisti e i loro epigoni. Infine c’è l’«atea cristiana», il cui tragitto spirituale si svolge per intero all’ombra di Benedetto Croce e del suo Perché non possiamo non dirci cristiani.
La lotta contro l’islam non è una battaglia contro l’immigrato. È una guerra alla teocrazia introdotta subdolamente nei Paesi democratici. Le comunità arabe rifiutano l’integrazione, facendo leva sul multiculturalismo frettoloso di un Occidente incapace di apprezzare (e dunque difendere) la libertà conquistata a caro prezzo. Il risultato? Alcuni quartieri delle nostre città obbediscono alla sharia. «Al novantacinque per cento – si legge in La Forza della Ragione – i musulmani rifiutano la libertà e la democrazia non solo perché non sanno di che cosa si tratta ma perché, se glielo spieghi, non capiscono. Sono concetti troppo opposti a quelli su cui si basa il totalitarismo teocratico. Troppo estranei al tessuto ideologico dell’Islam. In quel tessuto ideologico è Dio che comanda, non gli uomini.
Un Dio che non lascia posto alla scelta, al raziocinio, al ragionamento». Un musulmano deve obbedire alla sharia anche quando prescrive norme inconciliabili con la nostra Costituzione. È il caso della poligamia. O del trattamento da riservare a mogli e figlie. Il Corano ordina la sottomissione e l’obbedienza al marito. Le nostre leggi però stabiliscono l’uguaglianza dei sessi, difendono la libertà della donna, vietano atti discriminatori nei suoi confronti.
Possiamo derogare alle nostre regole? Ovviamente no. Per spiegare al lettore quale sia la posta in palio, la Fallaci nella Forza della Ragione usa le parole del grande economista liberale Friedrich von Hayek a proposito della Russia bolscevica e della Germania nazista. «Qui non si abbandonano soltanto i principii di Adam Smith e di Hume, di Locke e di Milton. Qui si abbandonano le caratteristiche più salde della civiltà sviluppatasi dai greci e dai romani e dal Cristianesimo, ossia della civiltà occidentale. Qui non si rinuncia soltanto al liberalismo del 1700 e del 1800, ossia al liberalismo che ha completato quella civiltà. Qui si rinuncia all’individualismo che grazie a Erasmo da Rotterdam, a Montaigne, a Cicerone, a Tacito, a Pericle, a Tucidide, quella civiltà ha ereditato... Chiunque neghi l’individualismo nega la civiltà occidentale».
Quando si tratta di capire i motivi per cui l’Europa assiste muta alla possibile disintegrazione dei suoi valori fondanti, la Fallaci ricorre al padre del liberalismo prediletto, citato sulla pagina e in privato: Alexis de Tocqueville, l’autore di La democrazia in America (e di lettere feroci contro il Corano). In fondo il nostro male è barattare libertà per collettivismo, spogliandoci così di ogni responsabilità. Ecco il passo, ancora dalla Forza della Ragione: «Forse Tocqueville \ si riferiva a noi italiani quando diceva che il matrimonio su cui si basa la democrazia, il matrimonio dell’Uguaglianza e della Libertà, non è un matrimonio riuscito. Che non è riuscito perché gli uomini amano la libertà assai meno dell’uguaglianza, e la amano assai meno perché sfociando nel collettivismo l’uguaglianza toglie agli individui il peso delle responsabilità. Perché non esige i sacrifici che esige la libertà, non richiede il coraggio che richiede la libertà, non ha bisogno della libertà». Anche il declino delle classi dirigenti ha una spiegazione «tocquevilleana»: in democrazia i voti «si contano ma non si pesano. Sicché la quantità finisce col valere sulla qualità». Al governo talvolta vanno i peggiori: quelli che cercano il compromesso e, temporeggiando, lasciano morire il paziente ammalato.
Croce, Hayek, Tocqueville. Libertà, individualismo, tirannia della maggioranza. Altro che xenofoba. Altro che vecchia rancorosa. Altro che anarchica. Per descrivere Oriana Fallaci, e capire quanto fosse isolata, basta una parola: liberale.
A.Gnocchi

martedì 28 giugno 2011

Gheddafi il beduino

"Colonnello, come conciliate un simile disprezzo per il mondo occidentale e gli affari che fate con i suoi maggiori esponenti, con Gianni Agnelli, ad esempio?”. “Gianni chi?”, risponde stupito il rais. “Gianni Agnelli, il presidente della Fiat”. “La Fiat? La mia azienda, my company!”. Con questi pochi tratti di penna Oriana Fallaci ha scritto il miglior ritratto di Muammar Gheddafi, quando lo intervistò il 2 dicembre del 1979. Tutto è “mio” per il dittatore di Tripoli, che poco si interessa ai particolari, anche se sono della statura di Gianni Agnelli.
L’iperego del rais non ha soltanto componenti di natura caratteriale, ma anche di matrice etnica. Perché tutto, dall’inizio alla fine, nella vita di Muammar Gheddafi è marcato da una concezione beduina e tribale non soltanto del suo paese, ma del mondo intero. Al colonnello non poteva neanche passare per la testa che la Fiat, pagata con i fondi sovrani dello stato libico, non fosse la “sua” fabbrica, di proprietà personale, come tutto quanto toccava e muoveva. Le guerre (anche quella che avrebbe voluto dichiarare alla Svizzera, colpevole di avergli maltrattato un figlio capriccioso), gli affari, i commerci, la diplomazia, il terrorismo dal 1969 a oggi sono stati monopolizzati dalla concezione beduina di Muammar Gheddafi. La tenda beduina che il rais piantava dappertutto nelle sue visite di stato, fosse villa Doria Pamphilj o nel giardino di Palais Marigny, adiacente all’Eliseo, è stato il suo rivendicato ed efficace simbolo-feticcio.
Gheddafi non ha mai aspirato a essere e ad agire come un capo di stato (concetto che gli è sempre stato estraneo), men che meno come un leader politico o religioso, o come l’amministratore di una immensa ricchezza in petrodollari. Tutte queste funzioni si riassumevano, confusamente, come confuso fu il suo Libro verde, nel fatto di essere il rais, il capo della tribù più potente del suo paese, che doveva dominare, con le buone o con le brutte, le tribù concorrenti con un reticolo di alleanze, tradimenti, matrimoni, trappole e furbizie tese a mantenere la loro sottomissione. A partire dal millenario punto di forza dei leader beduini: il controllo dei pozzi. Un tempo di acqua, ora di petrolio. Con una estraneità totale, nativa, culturale, per tutto quanto obbligasse a “lavorare la terra”, a impiantare opifici e fabbriche. Il suolo, per un beduino, va dominato soltanto per quel che danno le sue viscere. Al meglio. Null’altro.
Il tutto immerso in un elemento di mistero, nel quale si nasconde la risposta al clamoroso errore sulla sua resistenza (e sulla sua capacità di sfuggire al killeraggio missilistico) compiuto dalla coalizione voluta da Nicolas Sarkozy, David Cameron e Barack Obama. Il mistero riguarda la struttura decisionale, il funzionamento di un quadro di comando libico che ha sempre dimostrato di essere in grado di fare fronte a una serie complessissima di operazioni. Si guardi al cruciale biennio 1975-1977 e si vedrà come il colonnello, con una struttura di potere assolutamente monocratica, è riuscito contemporaneamente a condurre due guerre (Ciad e Egitto), acquistare la quota di minoranza nella Fiat, dirigere il rapimento dei ministri Opec a Vienna e infine a delineare la nuova ideologia del regime, lanciando con una grande operazione mediatica il suo confuso Libro verde. Il tutto avviando complesse trame terroristiche, vuoi con Abdu Nidal e Settembre Nero (in raccordo con la Stasi della Ddr), vuoi finanziando la Rote Armee Fraktion, la Eta basca e l’Ira irlandese. Una mole poderosa e intricata di iniziative e dossier, gestiti tutti attraverso il Diwan della “tenda beduina”, che ne ha garantito, oltre ogni analisi e aspettativa, la sopravvivenza, nonostante più di tremila operazioni della Nato.La vita di Muammar Gheddafi, nato a Sirte il 7 giugno 1942, fu segnata, secondo gli agiografi libici, da un episodio drammatico, ovviamente impossibile da verificare: mentre giocava con due cugini esplose una mina – forse italiana, forse inglese – che straziò i due parenti e lo ferì a un braccio. Se vero, l’episodio potrebbe spiegare alcune cose. La sua formazione scolastica fu affidata alla madrassa di Sirte, in cui fu preso dall’entusiasmo per il vento che allora percorreva tutto il Maghreb: il panarabismo di Gamal Abdel Nasser, suo punto di riferimento forte, per alcuni anni a venire. Iscritto all’Accademia militare di Bengasi, si specializzò in Gran Bretagna (dove apprese discretamente l’inglese, che però ha sempre finto di ignorare in tutte le visite ufficiali, così come l’italiano, peraltro).
Molti analisti – non senza ragione – considerano questa specializzazione all’estero come prova certa dei legami del futuro rais con i servizi segreti inglesi, che avranno un ruolo determinante nel golpe del 1969. A 27 anni fu capitano dell’esercito e subito entrò in contatto con un gruppo di giovani ufficiali che – su sollecitazione discreta vuoi dei servizi inglesi, vuoi del Sid italiano – il 26 agosto 1969 organizzò un incruento colpo di stato contro il re Idris. Sono evidenti le ragioni che spinsero inglesi e italiani – saldamente già radicati in Libia con i loro impianti estrattivi – a cercare un interlocutore meno vacuo e assenteista (e per di più odiato dai tripolitani, perché membro di una dinastia della Cirenaica) al timone della Libia. Erano fortissime anche le ragioni che motivarono i giovani ufficiali, scandalizzati per la decisione di re Idris di non partecipare alla guerra contro Israele del 1967 – in un paese che reagì alla sconfitta dando vita a pogrom sanguinosi contro la storica comunità ebraica.
Il golpe riuscì senza spargimenti di sangue. Gheddafi si mise subito al comando, a fianco di Abdessalam Jallud – suo braccio destro sino al 1993, quando cadde in disgrazia – e di Abdel Fattah Younis al Obeidi, che, dopo anni spesi a occuparsi della repressione interna, oggi comanda gli insorti di Bengasi (appartiene alla tribù degli Harabi della Cirenaica, alla testa della ribellione). Il colpo di stato fu accolto con indifferenza nelle cancellerie europee e salutato con simpatia dalla sinistra comunista, Pci in testa, in quegli anni convinta – su impulso sovietico – che il nasserismo di cui Gheddafi fu inizialmente alfiere fosse il massimo del “progresso”, la punta di diamante del “fronte antimperialista”, in un contesto in cui Israele era definito “quinta colonna dell’imperialismo americano” e i palestinesi ricoprivano il ruolo di vietcong.
La matrice panaraba e quindi ferocemente antiisraeliana (e antisemita) del giovane colonnello fu indubbiamente determinante nella sua ascesa, ma si rivelò di breve durata. L’unificazione tra Libia, Egitto e Siria, che Gheddafi proclamò solennemente nel 1972, non fu mai realizzata a causa della assoluta nebulosità del progetto e della totale diffidenza di Anwar el Sadat, che da allora in poi definì il rais “quel pazzo di Tripoli”.
Identica sorte ebbe il tentativo concordato l’8 gennaio del 1974, da Gheddafi e dal tunisino Bourghiba, che, dopo un incontro improvviso in un hotel di Djerba, annunciarono la fusione dei due stati e la nascita della Repubblica arabo islamica che univa Libia e Tunisia. Il progetto, finito rapidamente nel dimenticatoio, non è mai decollato. Sono due fallimenti che giocheranno un ruolo esiziale sul futuro economico dell’Africa mediterranea.
L’impostazione tutta ideologica e verticistica del panarabismo, sommata alla superbia personale dei dittatori, fece fallire le fantasiose unificazioni statali e creò strascichi polemici e diffidenze (anche guerre, come vedremo) tra i paesi nordafricani. Ne conseguì una politica di frontiere chiuse e la totale assenza di relazioni economiche, investimenti reciproci, commerci, creazione di infrastrutture comuni che – come è avvenuto in Europa – grazie alla formidabile possibilità di finanziamento da petrolio, avrebbe potuto trasformare questi paesi in una potente area di sviluppo, invece che in quella riserva di sottosviluppo cui sono ridotti oggi (Libia inclusa).
Da subito, il nuovo regime lasciò trapelare il tratto più profondo, istintivo, innegabile del nuovo rais: la ferocia. Innanzitutto e sempre nei confronti del suo stesso popolo, con le centinaia di impiccati senza processo (anche per aver fischiato Saadi, il figlio calciatore di Gheddafi, allo stadio), con la negazione di qualsiasi spazio di libertà, con la persecuzione (omicidi mirati e torture incluse) dei suoi potenziali avversari, con la negazione della pur minima libertà di stampa e di pensiero e anche con episodi grotteschi, come quello dell’imprigionamento per ben otto anni e della successiva condanna a morte di sei infermiere bulgare, liberate nel luglio 2007, accusate di avere volutamente infettato di Aids alcuni pazienti. Ferocia dispiegata con incredibile fantasia e attivismo sul piano esterno, a partire dall’odio fanatico, con chiare venature di antisemitismo, per Israele, stella polare della sua politica estera. Odio che si è concretizzato – dato indicativo della strategia gheddafiana – nel finanziamento delle organizzazioni terroriste più spregiudicate e sanguinarie e mai – neanche nel 1973 – nel contrasto militare in campo aperto. Odio che ha scavato anche un ulteriore abisso nei confronti della leadership dell’Arabia Saudita (già motivato dai legami religiosi dei wahabiti con la Senussiyya, la confraternita della Cirenaica, legata a re Idris e centro delle attività secessionistiche di Bengasi), accusata per la sua alleanza con gli Stati Uniti e per lo stesso piano di pace con Israele propugnato da re Fahad.
Gheddafi è stato dunque essenzialmente un uomo capace e straordinariamente feroce, che si è circondato di uomini feroci. Lo dimostrò nel modo con cui saldò i conti con l’Italia: nel momento stesso in cui siglava contratti faraonici con l’Eni, Gheddafi emise, il 21 luglio 1970, un decreto di confisca di tutti i beni – inclusi i contratti Inps – dei 20 mila italiani residenti in Libia e li espulse in massa, imponendo la data limite per la fuga del 15 ottobre del ’70. La decisione del rais è in linea con la sua feroce furbizia beduina: non colpì affatto l’Italia, con cui anzi intrattenne fruttuosi affari, ma depredò tutti gli italiani che aveva sottomano. Pratica, peraltro, “copiata” dal mentore Nasser, che nel ’56 aveva fatto una mossa simile, ma in modo più sottile, nazionalizzando tutte le imprese e le attività degli stranieri, italiani in testa.
Stesso esito per questa diaspora forzata dei nostri connazionali: la rovina e la chiusura della rete di piccole industrie, aziende agricole moderne, attività artigianali meccanizzate impiantate dagli italiani che, nazionalizzate o confiscate, nel giro di pochi mesi andarono in rovina con un immenso danno economico per l’Egitto, come per la Libia. Naturalmente, la Libia di Gheddafi nazionalizzò anche le proprietà petrolifere straniere, ma non destò stupore, perché il fenomeno coinvolgeva in quei primi anni 70 tutti i paesi produttori e fu subito assorbito con una rapida trattativa che elargiva alle società petrolifere concessioni redditizie (scelta imposta anche dal fatto che nessun paese produttore aveva la minima intenzione di investire i profitti da petrolio nei costosissimi impianti di estrazione, trasporto e raffinazione).

Carlo Panella (1/3)

domenica 12 giugno 2011

Riforme, Italia

Sul corriere di oggi l'articolo di Galli della Loggia sul perché non si possono fare le riforme in Italia. Simile concetto a quest'altro, di due anni fa, a firma Panebianco.

sabato 11 giugno 2011

Carlos

Belle facce, buona colonna sonora, belle auto, ottimi vestiti. Si parla francese inglese spagnolo tedesco arabo russo.

mercoledì 4 maggio 2011

Dio, patria, famiglia

«La beatificazione del Papa e la fol­la dei devoti a Roma, l’intervento in Libia e il compleanno d’Italia, il matrimonio nella famiglia rea­le inglese in mondovisione, il ri­nato patriottismo Usa dopo la morte di Bin Laden. Quattro even­ti planetari in una sola settimana hanno riacceso in forme diverse le luci su un’antichissima trinità: Dio, patria e famiglia. Era da tem­po che non si rivedevano insie­me. Che fine hanno fatto Dio, patria e famiglia? Sono stati per secoli l’orizzonte di vita e di senso dei popoli, poi si sono ritirati nel ruolo di bandiera ideale per movimenti conservatori e tradizionali. Ora sanno di arcaico e finito, servono più per etichettare posizioni antiquate altrui che per rivendicare le proprie. Con che cosa furono sostituite? Potremmo rispondere con nulla, o con il nulla eretto a orizzonte. O, storicamente, che furono sostituite con libertà, eguaglianza e fratellanza. O più semplicemente che furono barattate con l’individuo, i suoi diritti e la libertà sovrana di sentirsi cittadino del mondo, senza legami a priori. Sembra impossibile pensare a Dio, patria e famiglia. Chi li vive non li pensa e chi li pensa li ritiene già morti. Eppure Dio, patria e famiglia occupano ancora il pensiero supremo di metà umanità e la loro orfanità è avvertita come un vuoto dall’altra metà. Dio, patria e famiglia popolano i pensieri reconditi, i ricordi e i rimorsi più forti, animano l’arte,il sogno e la letteratura,resistono come nostalgia e sentimenti. Perché occupano rispettivamente la sfera del pensiero e della fede, della vita pubblica e civile, della vita intima e sentimentale. Si chiamano in modi diversi; per esempio senso religioso, senso comunitario e senso delle radici. L’uomo ha tre dimensioni originarie, che sono la sua umanità, la sua natura e la sua cultura: la dimensione verticale che ci spin-ge a tendere verso l'alto, la dimensione orizzontale che porta a situarci in una comunità e la dimensione interiore che induce a ritrovarsi nelle origini. In questo triplice viaggio verso il cielo, la terra e le radici, ci imbattiamo in figure e presagi che richiamano Dio, patria e famiglia. E se fosse necessario ripensarli e riviverli nel nostro presente e nel futuro prossimo? Se nascessero dalla loro scomparsa la presente disperazione, il cinismo e gli abusi, le paure e le chiusure? Se avessimo bisogno di quell’orizzonte per essere uomini e per legarci davvero tra noi? Davanti alla tabula rasa bisogna tornare all’abc. Come si possono pensare oggi Dio, patria e famiglia con la sensibilità del presente, senza tornare al passato? In primo luogo attraverso la libera scelta, nessun automatismo imposto da natura o storia, autorità o legge. Ma una libera e radicale scommessa tra caso e destino, tra libertà di assegnare significato o no all’origine, ai nostri legami, al nostro senso del sacro e del divino. Abbiamo bisogno di dare un senso alla vita, riconoscendovi un disegno intelligente; poi di avvertire un luogo come la nostra casa, la nostra matrice; quindi di nutrire legami speciali di comunità e tradizione. In secondo luogo dobbiamo risalire dalla buccia al midollo, all’essenza di quel senso religioso, comunitario e delle origini. Con amore totale per la verità, costi quel che costi, non cercando coperture retoriche e rassicuranti bugie. È onesto pensare che le forme storiche, lessicali e rituali in cui si manifestano Dio, patria e famiglia possano morire e mutare. Ma il tramonto di alcune fedi secolari, di convinzioni e strutture, non significa la fine di quegli orizzonti e del nostro bisogno. È importante distinguere tra le forme che passano e i contenuti che restano; capire cosa salvare, cosa rigenerare e cosa lasciar morire. In terzo luogo, oggi Dio, patria e famiglia vanno pensate non solo in loro presenza ma anche in loro assenza, attraverso la loro mancanza, e gli effetti che questa produce. Non possiamo negare che si tratta di princìpi sofferenti, sempre più cagionevoli e incerti. Non possiamo chiamarci fuori, fingere una purezza che non abbiamo; dobbiamo saper riconoscere che nella loro penuria ci siamo dentro anche noi, fino al collo; scontiamo anche noi cadute e incoerenze. Non ci sono incontaminati guardiani dell’ortodossia e dell’osservanza; anche noi esitiamo e spesso voltiamo le spalle. Dunque, nessuna pretesa di superiorità e di purezza rispetto agli altri; sia questa ragione di realismo e umiltà popolare.

In quarto luogo va tenuto a mente che nessuno può imporre il monopolio, il primato, l’esclusiva, del suo Dio, della sua patria e della sua famiglia. Amare Dio, patria e famiglia non vuol dire negare quelli degli altri; ma rispettarli tutti, a partire dai propri. Se neghi il Dio, la patria e la famiglia degli altri, neghi i tuoi. Se neghi ogni dio, ogni patria e ogni famiglia, neghi l’umanità, la dignità e l’identità tua, altrui e del mondo da cui provieni. Chi rinfaccia gli orrori compiuti in nome di Dio patria e famiglia, confonde la malvagità umana con i pretesti in cui è stata rivestita nei secoli. Anche la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e i diritti umani sono stati usati per imporre il terrore giacobino, le dittature comuniste, il fanatismo ateo; contro Dio, patria e famiglia. Infine, i corollari: via la cupa ortodossia, meglio l’ironica leggerezza. Via la scolastica ripetitiva, meglio l’educazione popolare a quei principi. Via il superbo individualismo o la sua variante settaria, meglio iscriversi nell’alveo popolare di un comune sentire e di una tradizione provata dall’esperienza. Non so se questo basterà per rigenerare nel tempo presente e in quello che viene l’amor patrio,familiare e divino. Ma non vedo altro all’orizzonte che meriti di suscitare passioni ideali e nulla che ricordi davvero la storia e la vita autentica, la cultura e la natura dell’uomo. Se fosse questo il compito ideale e civile, politico e morale di oggi? Pensateci, perlomeno. Per non morire nemocristiani, cioè figli di nessun cristo.»

M.Veneziani

Eredi

«Subisce il termine "erede" la stessa sorte di tanti altri preziosi "nomi", che la chiacchiera quotidiana consuma e dissipa. Si fanno merci anch'essi, il cui valore è relativo esclusivamente all'utilità che se ne ricava. Siamo eredi che ignorano l'essenza più nobile della nostra eredità: il linguaggio – e lo massacriamo come fosse un mero strumento a nostra disposizione. Siamo, sotto questo aspetto, eredi che non sanno parlare, infanti, nepioi, dice il Vangelo. Eppure, proprio l'essere-eredi rappresenta per San Paolo il nostro "titolo" più alto: se siamo figli, siamo eredi (kleronòmoi), eredi di Dio, co-eredi di Cristo. Ma il figlio sa rivolgersi al padre, sa liberamente fare ritorno a lui – e allora soltanto eredita. Non si è "naturalmente" eredi, nessuna semplice nascita garantisce l'eredità – così come non conosciamo la nobiltà del linguaggio solo perché abbiamo ascoltato parlare la mamma. Erede sarà colui che riconosce in sé, come costitutivo del proprio sé, la relazione col padre, e cerca di esprimerla in tutta la sua tremenda difficoltà. Se è così, allora proprio l'erede sarà chi, "all'inizio", avverte la propria mancanza, la propria solitudine. Si fa erede soltanto colui che si scopre abbandonato. Hereslatino ha la stessa radice del greco kheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Può ereditare, dunque, solo chi si scopre orbus, orphanos (stessa radice del tedesco Erbe). Per essere eredi occorre saper attraversare tutto il lutto per la propria radicale mancanza. Così, per San Paolo, non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo – il che significa: attraverso la imitazione della sua Croce. Nulla forse ci è più estraneo di questa idea di eredità. Per quanto essa possa essere balenata nell'Umanesimo più filosoficamente e teologicamente audace, i grandi figli della modernità non si riconoscono più come veri eredi. L'eroico idealismo della nuova scienza e della nuova filosofia è dominato da homines novi, dall'idea di "uomo nuovo", che si infutura da sé, in base a ciò che egli stesso ha scelto di essere. L'"uomo nuovo" è un orfano felice. L'eredità non ha per lui alcun interesse sostanziale. Illusioni, favole, saperi inutili, di cui liberarsi in ogni modo. Figli siamo costretti a nascere, ma il figlio sarà davvero tale, cioè liber, quando saprà rifiutare d'essere erede. Le grandi visioni del mondo storicistiche non contraddicono affatto, nell´essenza, questo formidabile paradigma "progressivo". Il loro richiamo alle "radici", al fondamento di ogni sapere nei linguaggi "ereditati", alla necessaria connessione degli eventi, è tutto dominato dal presupposto che la storia, ora, nel nostro tempo, riveli un suo senso e un suo fine. Possiamo allora, sì, dirci eredi – ma eredi che "superano" in sé il padre. Quest'ultimo è divenuto, per così dire, il combustibile della nostra storia. Non l'erede fa ritorno a lui, ma è lui a consumarsi come alimento della vita nuova dell'erede. L'erede è "pieno" del padre, orbo di nulla, ma, anzi, occhio onniveggente. Allora anche la domanda sulle "radici" assume questo "prepotente" aspetto: quale paternità abbiamo meglio assimilato, quale ci risulta più utile per "progredire", quale ha più efficacemente funzionato da combustibile? E se una non basta, mescoliamole un po'… Padri "a disposizione" sul mercato dei beni-valori-merci. Che di fronte al formidabile dispositivo teleologico che informa di sé questa visione della storia e questa idea di eredità risultino del tutto impotenti sedentarie erudizioni, la cura meramente conservatrice del "così fu", dovrebbe risultare ovvio. Il passato diviene davvero una gabbia che impedisce di fare storia non appena si riduce a semplice "participio passato". Qualsiasi religio del passato, in questo senso, nega l'essenza di quell'erede, che vuole fare ritorno, ma che alla luce di questo ritornare concepisce il proprio stesso procedere. Qui consiste il paradosso dell'autentico erede: erede nomina una dinamica, dal riconoscimento di un proprio, essenziale,mancare, attraverso la ricerca di una relazione che possa presentarsi altrettanto determinante per il proprio carattere, fino al riconoscersi in essa. Eredità non significa "caricarsi" di contenuti dati, presupposti, ma ricercare il proprio stesso nome nell'interrogazione del passato. Eredità non significa assumere dei "beni" da ciò che è morto, ma entrare in una relazione essenziale, non occasionale, non contingente, con chi ci appare portante passato. Ma una tale relazione potrà essere voluta soltanto da chi si sente, da solo, in quanto semplice "io", deserto, mancante, impotente a dire e a vedere.

La chiacchiera dominante concepisce la ricerca di eredità esattamente all'opposto. Come ricerca di fondamento e di assicurazione. Mille volte meglio, allora, il gesto prepotente di quei "padri" che pretendevano di potersi "decidere" da ogni passato. Poter essere eredi comporta, invece, provareangoscia per una condizione di sradicatezza o di abbandono, porsi, su un tale "fondamento", all'ascolto interrogante del "così fu", cogliere di esso quelle voci, quei simboli che ci siano riconoscibili come relazioni essenziali, costitutive della trama del nostro stesso esserci. Dinamica arrischiata quanto altre mai, poiché il passato può sempre inghiottire chi se ne cerca erede, e in particolare proprio colui che presume di potersene appropriare. Erede è nome di una relazione massimamente pericolosa, il cui senso è oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici, quasi a voler fare del figlio l'automatico erede, e idee sradicanti, se non deliranti, di libertà, e cioè di un essere liberi in quanto assolutamente non destinati alla ricerca di essere eredi, di un necessario rapporto con l'altro da sé. Non solo non cerchiamo di essere eredi, ma accogliamo soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che ci rassicurino ancor più nella nostra pretesa "autonomia" – quando qualsiasi eredità è "partecipabile" per definizione. Ma ciò che è dimenticato non per questo è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di "erede" in tutta la pregnanza che nella nostra lingua, ancora, nonostante tutto, si custodisce.»

M.Cacciari

Earth is doing well

martedì 3 maggio 2011

Vendetta, giustizia

La vendetta, legge della frontiera che l’America ha e l’Europa teme

"Justice has been done”, giustizia è fatta:rimarranno queste parole a simbolo dell’America che con determinazione feroce ha rincorso nel tempo, braccato sulla terra e infine giustiziato lo scellerato che aveva osato entrare nella sua casa e trucidare i suoi figli. E’ l’America dei “pale rider”, di quella cultura che crede che la giustizia sia un dovere e la vendetta gioia liberatoria. E’ la condizione che permette a una società aperta di sopravvivere e di rafforzarsi, è il riaffermare lo spirito della frontiera su cui riposa parte della grandezza americana e che l’Europa non ha mai conosciuto e per questo dileggia o teme. Il terrorismo è per definizione una questione simbolica: nessuno che abbia praticato o pratichi questa forma di deterrenza del debole nei confronti del forte, di ricatto della minoranza nei confronti della maggioranza, può ragionevolmente pensare che basti a piegare una società, a fiaccarne la volontà, a intaccare il suo comune sentire, a disarticolare l’organizzazione del potere, in una parola a vincere.

Non lo pensavano nemmeno gli anarchici che terrorizzarono le monarchie europee del secolo scorso: anche loro erano consapevoli che ucciso il re, ucciso lo zar, altri ne avrebbero preso il posto. L’assassinio politico dunque non è mai stato mezzo di trasformazione materiale della realtà ma soltanto allusione simbolica, attimo e immagine folgorante che mostra una liberazione possibile e subito scompare come un flash nella notte. L’apice, il simbolo più tragicamente luminoso della potenza di un movimento terroristico, contiene in sé anche le ragioni della sua debolezza e della sua inevitabile sconfitta, poco importa quanto sia lunga, sanguinosa, spettrale la coda. Una volta che ha messo il nemico in ginocchio e constatato che è capace di rialzarsi reagire e rafforzarsi, il terrorismo non sa fare altro che riproporsi in modo compulsivo e sempre più impotente. E’ stato così sotto tutti i cieli e in tutte le epoche, anche quando i fenomeni non sono nemmeno lontanamente comparabili. In Italia, per tutti gli anni Settanta, il partito armato colpisce nel mucchio dell’organizzazione statale, poliziotti, funzionari, magistrati, figure politiche di secondo piano, sindacalisti prima di dispiegare la massima potenza in via Fani, sequestrando Aldo Moro e uccidendo gli uomini della scorta. Prima dell’11 settembre 2001, Bin Laden ha già colpito più volte ma è con l’attacco alle due torri, nel cuore finanziario della superpotenza, che irrompe sulla scena internazionale e penetra nell’immaginario delle folle musulmane.

Due eventi catastrofici che prendono di sorpresa l’Italia di allora e gli Stati Uniti di oggi, anche se entrambi hanno avuto qualche sinistro segnale su cui riflettere. Le democrazie, per il modo stesso in cui funzionano, possono avere momenti di cecità. Nello sgomento però entrambi prendono consapevolezza del pericolo e reagiscono. Con questa differenza: che l’America ha cercato in modo forsennato l’immagine positiva, che richiudesse la parentesi qaidista e ne decretasse simbolicamente la fine. Ci ha messo dieci anni ma è riuscita nell’impresa. L’Italia no. Nella cultura della vecchia figlia della vecchia Europa non c’è la chiusura dei conti, non c’è la determinazione a punire in modo esemplare: l’Italia un po’ punisce, un po’ sorveglia, un po’ perdona, un po’ dimentica. La fine della cosiddetta lotta armata endogena è in chiaroscuro, parole in eccesso e bolse di retorica che non assurgono perciò a valore di simbolo e non restano nella memoria. Le immagini sono confuse, sovrapposte, non hanno il nitore sinistro di quelle che illustrano la fase montante del terrorismo, l’autonomo che con il volto coperto dal passamontagna impugna la pistola a braccia tese, solo, in una strada di Roma, quella via Fani o della R4 in via Caetani dove fu ritrovato il corpo di Moro.

Non ci sono immagini altrettanto forti che scandiscono la fine del terrorismo. Quando le teste di cuoio del generale Dalla Chiesa fanno irruzione in un appartamento di via Fracchia, a Genova, e crivellano di colpi nel sonno cinque brigatisti, azione premeditata e spietata ma politicamente intelligente, la scena rimane inaccessibile a giornalisti e fotografi per molte settimane: l’Italia che decide di “terrorizzare i terroristi” vuole che tutti sappiano ma che nessuno veda. Possiamo immaginare invece cosa l’America avrebbe saputo costruire attorno a un simile successo della forza legittima, come avrebbe saputo trasformare un’esibizione spudorata in riaffermazione di sé, in simbolo potente cioè in storia, come le foto del Marshall in bella posa con il cadavere del fuorilegge ai piedi, come Dillinger riverso sul selciato, senza nemmeno la pietà del lenzuolo bianco. Sappiamo anche che l’America sa affrontare il clima di paura e non teme rappresaglie e ritorsioni: anzi, il pericolo la rende più determinata a chiamare le cose con il loro nome, nemici i nemici, tortura la tortura ed esecuzione un’esecuzione. Se l’Italia del tempo avesse voluto fare dei morti di via Fracchia il simbolo della propria forza, possiamo solo immaginare come avrebbero reagito tanti intellettuali, la sinistra da centro storico, i moralisti al tartufo bianco: spettacolo inverecondo, nauseante. Per questo non c’è un’immagine che chiuda davvero i cosiddetti anni di piombo, un simbolo che scoraggi sprovveduti imitatori, un’immagine che ci faccia dire ebbene sì, questi siamo noi, paese civile, tollerante ma feroce nella difesa di alcuni principi. Per questo quella stagione luttuosa è arrivata fino agli albori del millennio e sembra che covi ancora sotto la cenere, per questo sembra che il passato risucchi indietro il presente. Per questo si gioca con le parole, missione armata sì ma umanitaria, un po’ di guerra ma non del tutto, viva la piazza araba che chiede democrazia e non fondamentalismi. Per questo applaudiamo sempre in modo tiepido e con riserva mentale i successi dell’alleato potente, proprio come fanno i francesi. Bravi sì, ma dai, in fondo quel Bin Laden non contava più nulla, era politicamente moribondo. Per questo l’hanno venduto e chissà poi chi l’avrà venduto.

L.Pace

mercoledì 27 aprile 2011

venerdì 11 marzo 2011

mercoledì 2 marzo 2011

sabato 19 febbraio 2011

martedì 15 febbraio 2011

venerdì 11 febbraio 2011

Ausmerzen

"Vite indegne di essere vissute". E' molto di più di una riflessione commossa e documentata sull'eugenetica nazista: è un pugno nello stomaco e uno schiaffo alla coscienza a tutti noi brava gente progressista che ragioniamo per categorie storiche e morali mentre ci sfugge che il "Male assoluto" nacque (nasce) da tanti beni relativi, convinti o indifferenti. Il male ha bisogno di gambe, e il grande merito di Paolini è ricordarci che le gambe possono essere quelle benintenzionate di ciascuno di noi.

giovedì 10 febbraio 2011

That's cinema - 3

Guardatela bene l'immagine.

mercoledì 9 febbraio 2011

Azionismo e liberalismo

L'editoriale di Ezio Mauro esaltatore del (suo) azionismo, la risposta dell'Elefantino contro giacobinismo e puritanesimo, e quella di Ostellino, lezione di liberalismo.

domenica 6 febbraio 2011

100 volte Reagan

Gli articoli di Rocca e Respinti.

Femmine (e femministe) d'Italia

Inchiesta fra ragazze sulla questione delle mutande: tenerle o toglierle? E toglierle, se non ora, quando? Né Maria Goretti né Boule de Suif, forse entrambe

Se un uomo si dichiara femminista non c’è un minuto da perdere: su le mutande e via, senza pensarci un minuto”. Lo scriveva Natalia Aspesi nel 1978 in “Lui! visto da Lei” (Bur), quando la faccenda dei femministi (signori che in questi giorni si sentono offesi non per la propria, sempre intatta, ma per la nostra dignità) e la questione delle mutande (tenerle o toglierle, e toglierle, se non ora, quando) sembrava perfino più semplice di adesso. La liberatoria certezza, volendo andare un po’ a slogan, “né puttane né madonne, siamo solamente donne”, non è più così certa, poiché si corre a specificare, in appelli, piazze e cambi di foto su Facebook in cui si mette Virginia Woolf al posto della nostra faccia forse non sufficientemente dignitosa, che non siamo per niente zoccole. “Le femmine d’Italia son disinvolte e scaltre e sanno più de l’altre l’arte di farsi amar. Nella galanteria l’ingegno han raffinato: e suol restar gabbato chi le vorrà gabbar”: Gioacchino Rossini (“L’italiana in Algeri”) amava le femmine d’Italia, e anche qui le si adora e si sa che non resteranno gabbate, costrette a dividersi fra ragazze per bene e ragazze per male, a essere “madonne” (madonnina infilzata, mi chiamava mia nonna quando mi lagnavo di qualche terribile ingiustizia, paragonabile a quelle che Luciana Castellina, magnifica fondatrice del manifesto, annotava quindicenne nel suo diario, appena uscito per Nottetempo: “Le maledette tette sono ancora solo accennate”).

Le femmine d’Italia non si divertono con lo spettacolo spiato ad Arcore e nei telefoni cellulari circostanti, non sostengono ringhiando, tendenza Santanchè, che non ci sia nulla di cui parlare (e si potrebbero scrivere nuovi romanzi su uomini che, si infiamma la scrittrice Barbara Alberti, “pagano le donne per non entrare in intimità con loro, che non sanno cos’è il sesso”); osservano Ruby con il politicamente scorretto istinto di darle due schiaffi materni e chiuderla in casa la sera coi mutandoni di lana. Ma mai mai mai con disprezzo anti femminile, mai con il senso dell’onta di genere, mai con il santino in mano di Maria Goretti, per dare ragione oggi a Enrico Berlinguer che la proponeva, allora, alle compagne come modello di femminilità da copiare. Anna Bravo, femminista e storica del movimento delle donne (raccontato in “A colpi di cuore”, Laterza), spiega: “Non partecipo ai movimenti di questi giorni, non ho firmato alcun appello e non andrei mai in piazza contro altre donne. Mi dispiace che non riusciamo a inventarci qualcosa di bello, di vitale, di diverso, qualche forma di disturbo della mascolinità, invece di continuare ad autopunirci”. Luisa Muraro, filosofa e femminista, ha detto una cosa assai chiara: “Sono molto critica verso la separazione fatta da Concita De Gregorio fra quelle che non si prostituiscono, alle quali lei si rivolge, e quelle che si prostituiscono, escluse da ogni considerazione. Io sono impegnata politicamente per la libertà femminile e lotto contro ciò che la ostacola: la ostacolano gli uomini che usano i loro tanti soldi per ridurre il corpo femminile a merce; ma le donne che vanno a questo mercato, io sostengo, hanno una soggettività che non mettono in vendita e perciò vanno prese in considerazione. Altrimenti, dalla politica si scade nel moralismo”.

Quelle che si ricordano le lotte per la libertà di allora si arrabbiano adesso: “Ci eravamo giurate trent’anni fa di non fare mai politica a spese delle donne, e adesso guarda, le divisioni fra buone e cattive”. Continua Anna Bravo: “Non sentivo cose del genere da quarant’anni. Le cattive e le buone, le puttane e le sante: non fatemi diventare perbene e santa, vi prego”. Le femmine d’Italia non vogliono essere sante (“Sono una femminista, non una donna per bene”, dice la scrittrice e giornalista Paola Tavella; “Una donna non può star bene se non è anche un po’ per male”, Anna Bravo), e basta Colette per capire che la tentazione ha molte sfaccettature, e la faccenda delle mutande, tra l’altro, ognuna di noi la porta dentro nel modo che sceglie, e con i segreti che ha.

Intervistata post festini di Arcore, Natalia Aspesi, che pure ha firmato appelli e ha fatto su MicroMega il ritratto della donna del berlusconismo, ha ripetuto una sua convinzione antica: “Credo che essere un puttanone debba dare tante soddisfazioni… Non lo so, io non lo sono stata purtroppo. Per essere un puttanone prima di tutto bisogna essere bellissime, io ero bruttarella ma mi sono molto divertita lo stesso, adesso sono vecchia purtroppo. Spasimanti ne ho avuti, ma i puttanoni ne hanno tanti. Non ritengo che essere un puttanone sia negativo, è una forma di potere che si può esercitare finché si è giovani. E siccome quel tipo di vita fa parte della vita di una donna da sempre, io non mi sento offesa, è il contesto che mi offende. La seduzione riguarda la vita di tutte le donne e, in caso di lavoro, convincere delle proprie capacità anche con il corpo, va benissimo, capita spesso e talvolta è anche molto piacevole: i capi non sono tutti vecchi e brutti. Si può fare il puttanone nel periodo di preparazione a quel che sei, che diventerai, può essere divertente, ai miei tempi purtroppo non si usciva neanche la sera, ma ci deve essere poi il tempo di fare la propria strada e non si può stare in un Consiglio regionale a venticinque anni per quel tipo di meriti. Certo, la storia ci dice che se queste ragazze fossero più sveglie avrebbero in mano non solo il premier ma tutte noi. Ho sempre come esempio le amanti del Re Sole, belle e intelligentissime”.

La scrittrice trentenne Chiara Gamberale ha in mente Honoré de Balzac, “Splendori e miserie delle cortigiane”, e il padre di Anna Bolena che, nella serie televisiva americana “I Tudors” le consiglia di mettersi nel letto del re (“Tu saprai come farlo impazzire”: sembrano i parenti delle ragazze coinvolte nelle notti di Arcore), e Anna Bolena stessa che quando capisce che la preferita è diventata un’altra, Jane Seymour, fa girare pettegolezzi sulla virilità del re. “Quando c’è un uomo con un forte narcisismo – dice la Gamberale – va da sé che attiri un certo tipo femminile, che cerca lo sfruttamento reciproco e mai il confronto: il narcisista vuole possedere, ma appena ha posseduto deprezza ciò che ha, e intanto le cortigiane mirano alto, vogliono il potere, la corona, il rituale della vestizione. In questa storia dei festini di Arcore posso sentirmi offesa come cittadino, perché mi tolgono qualcosa che è mio quando Nicole Minetti viene nominata nel Consiglio regionale della Lombardia, ma non come donna, perché il modo che hanno le ragazze di Arcore di gestire la loro femminilità non toglie niente al mio”.

A proposito di cortigiane, in un meraviglioso libro di Benedetta Craveri, “Amanti e regine” (Adelphi), Madame du Barry, prostituta dei bassifondi sedusse Luigi XV e “non si fece intimidire dal suo regale cliente e si comportò con la sfrontata sicurezza di una professionista dell’eros, decisa ad avvalersi di tutti i segreti del mestiere. A cominciare dal suo celebre ‘baptême d’ambre’, che faceva sempre molto colpo”, e che qui non si intende dettagliare. Luigi non poté più fare a meno di lei e la impose a corte, dove divenne “maîtresse en titre” (finì ghigliottinata, dopo la Rivoluzione, proprio lei, figlia del popolo che non aveva mai conosciuto l’orgoglio aristocratico). Si dà e si chiede, si offre e si pretende, il mondo è rigonfio di questi scambi, i letti per fortuna non possono ancora parlare, e Michela De Giorgio, studiosa del movimento delle donne, che guarda l’Italia da Berlino e sta scrivendo adesso un libro intitolato: “La bella italiana, storia del corpo femminile dall’Unità a oggi”, racconta le sartine torinesi di inizio Novecento, indagate nel libro di Robert Michels, “Dove va la morale sessuale”, del 1912: osavano portare i cappelli che le midinette parigine non portavano, si concedevano ai clienti nei caffè, nelle sale da ballo, per una borsetta e un cappotto da cinque lire, e contravvenivano al divieto di confezionarsi abiti uguali a quelli che facevano per le signore. Scambiavano favori con favori, consapevolmente, e senza farsi chiamare puttane”.

Secondo Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi “ad Arcore c’è stato uno scambio nel quale, piaccia o no, quelle ragazze erano la controparte. Il femminismo ha pure lavorato per riconoscere l’autonomia di ogni donna: non esiste un modello unico di comportamento femminile. Care sorelle di sesso, certo c’è da discutere sul fatto che alcune o numerose donne scelgano di vendere il proprio corpo a chi ha tanto potere per ricavarne vantaggi. Ma cerchiamo di non ricadere nella misoginia e nel moralismo. Anche perché mentre le brave ragazze vanno in Paradiso, le cattive sono dappertutto”. E allora, se bisogna stare da qualche parte, viene l’istinto di mettersi fra le cattive: “Se andrò alla manifestazione, mi metterò dietro lo striscione delle prostitute”, dice Ritanna Armeni, giornalista, scrittrice e femminista. “Istintivamente ero contro questi appelli, contro la manifestazione: le donne non hanno niente da cui difendersi, lo squallore è maschile e fastidioso esteticamente. Capisco e ascolto però nelle giovani donne, questo senso profondo di ingiustizia, come se solo le belle avessero diritto a qualcosa in più, ma non possiamo proporre in alternativa un modello morale, punitivo, sacrificale: da una parte le puttane, l’infima minoranza da cui distinguersi, e dall’altra quelle che faticano ad arrivare a fine mese, le precarie, le sante, le laboriose, le pure. Sai che soddisfazione: è un errore, dobbiamo invece proporre alle donne un modello di leadership, non l’infelicità. L’iniziativa delle donne che si sentono offese nella dignità e che prendono le distanze dalle ragazze di Arcore rischia di abdicare a quanto di eversivo e rivoluzionario c’è stato nel femminismo”.

Ritanna Armeni è arrabbiata. Sia con le donne politiche di destra che negano il problema (“vorrei che il ministro Carfagna dicesse qualcosa invece di rinchiudersi nel proprio perbenismo”), sia con le femministe di allora che “non possono non capire che un’iniziativa del genere ci rende di nuovo subalterne a un modello bacchettone, che la persecuzione delle ragazze dell’Olgettina distrugge il significato eversivo delle nostre lotte di allora, quel che abbiamo costruito. E’ come vedere ritornare l’esempio sacrificale, che è quello con cui sono cresciuta io e che detesto: dovremmo proporre l’audacia, il coraggio, andare alla conquista del mondo per farlo come piace a noi”. Marina Terragni, giornalista e scrittrice, vuole andare all’attacco: “Ecco, se invece di scendere in piazza per dire che le donne hanno una dignità si scendesse per dire che questo paese ha già una premier bell’e pronta, ed è Rosy Bindi, forse sarebbe meglio”. Rosy Bindi secondo Barbara Alberti (inferocita con le ragazze di Arcore non per perbenismo ma perché “credo che si possano permettere delle avventure più esaltanti, che possano usare il libero arbitrio per qualcosa di meglio”) è anche infinitamente più bella del premier, che pure osa prenderla in giro, “stupenda, con quella faccia da monaca che sprizza salute”, e la indiscutibile bellezza, anche se gonfiata a dismisura, accomuna insieme alla giovinezza le ragazze dello scandalo (“Più sei giovane più sei adatta a fare il puttanone: dopo diventa ridicolo”, spiega Natalia Aspesi).

Secondo Sigmund Freud, ricorda Michela De Giorgio, “le romane sono le più belle di tutte, ognuna è una statua”. Franca Fossati, femminista, nota che fra le donne giovani, fra i venticinque e i trent’anni, grava sulla bellezza un senso di ingiustizia e spaesato rancore: ho le gambe corte e non sono bella come la Carfagna, che sarà di me?, e da un sondaggio di Renato Mannheimer emerge una triste assenza di sogno: vorrei insegnare all’università ma finirò per fare la commessa, vorrei andare sulla luna ma starò seduta in un call center, “una cosa che ai nostri tempi non esisteva: eravamo tutti protesi ad affermare la nostra individualità, pensavamo di cambiare il mondo, nulla ci preoccupava e nulla avrebbe potuto deprimerci, c’era una generale incoscienza che però potevamo permetterci, e le belle magari andavano a letto con il leader, ma non si conquistavano per questo posizioni di potere, suscitavano la solita invidia che suscitano le belle e basta”. Il problema è il senso di nulla, di vuoto, un orizzonte plumbeo e ristretto che toglie luminosità, ma “Concita De Gregorio, con il suo appello, non propone nulla se non un grigiore rancoroso che non fa bene alle donne, non le scuote, ma anzi le incita a lamentarsi e a prendersela con altre donne, contribuendo perfino a coltivare il tabù della prostituzione, dalla quale in realtà nessuna donna può tirarsi fuori. E come al solito non c’è un pensiero maschile, ma si rovescia tutto su di noi: siamo noi che dobbiamo pensare, indignarci, farci il controcanto, manifestare”.

Gli uomini, in effetti, si indignano al massimo per la nostra dignità violata, ma mai li ha sfiorati l’idea di interrogarsi sulle proprie debolezze (“La mia parte femminile è molto incazzata”, ha detto Tiziano Scarpa, e Michele Placido si sente offeso da Arcore “in quanto compagno di una donna giovane”), lasciano alle femmine d’Italia il compito di arrabbiarsi per qualcosa che riguarda gli uomini molto da vicino (in una famosa osteria di Trastevere, l’altra sera, un gruppo di ragazzi molto rumorosi ha alzato i calici per Nicole Minetti, “un genio, un idolo”, e alcuni signori sinceri hanno ammesso nell’intimità, dopo aver controllato l’assenza di cimici dalla stanza, che “non si può dire ma lei è il sogno di tutti gli uomini: paga le bollette, porta le amiche, è automunita”). Anche per questo Paola Tavella dice: “L’onta ricade sulla sessualità maschile, non certo sulla mia. Non vado in piazza perché ho smesso di pulire dove i maschi sporcano quando ero ancora una ragazzina”.

Barbara Alberti riporta alla memoria una bellissima novella di Guy de Maupassant, “Boule de Suif”, in cui una rubiconda prostituta, in fuga da Rouen invasa dai prussiani, nel 1860, è all’inizio mal tollerata dai compagni di viaggio, che però accettano il cibo che lei porta nel cesto, poi spinta a concedersi a un ufficiale prussiano che altrimenti non li lascerà passare. Lei non vuole perché è patriottica, ma si immola per la causa, e i viaggiatori “per bene” alla fine continuano a disprezzarla e ad emarginarla, quasi “che l’unico ruolo della donna su questa terra fosse un perpetuo sacrificio della propria persona”. Il perpetuo sacrificio è anche convincersi che fuori dal circuito tette e culi non ci sia speranza per fare qualcosa di bello, perpetuo sacrificio è credere che tette e culi ci offendano e che abbiamo bisogno di mettere Maria Montessori sul profilo di Facebook per significare la nostra diversità (alcune, per allegra protesta anti bacchettona, mettono le pornostar), perpetuo sacrificio è donne contro le donne, donne per bene con la dignità e per male senza la dignità. “Le ragazze di Arcore non mi tolgono nessuna dignità – dice Franca Fossati – sarebbe regressivo pensare che la mia vita e la mia storia personale possano essere oltraggiate da questa vicenda”. “Andare in piazza per dire ‘non sono una prostituta’ ma una giornalista la sento come una miseria troppo grande per una donna – scrive sul blog Marina Terragni – una specie di excusatio non petita che le donne di questo paese non devono sentire di dover dare. Per niente empowering. Mi sentirei ritirata indietro in una miseria femminile che non c’è più, se mai c’è stata. Le donne sono protagoniste della vita sociale ed economica del paese, la miseria è della politica che non si avvale della loro grandezza, della loro forza e della loro intelligenza. E’ questo protagonismo femminile che le nostre figlie devono vedere”. La dignità femminile è cosa troppo seria per perderla in un paio di mutande che volano sull’abat-jour, ma le femmine d’Italia devono essere più scaltre, inventarsi qualcosa di grande, evitare di farsi trattare come Boule de Suif.

In un monologo di Stefano Benni (da “Le Beatrici”, appena uscito per Feltrinelli), c’è una signora benvestita, dall’aria decisa, sta dietro una scrivania-cucina, dietro pentole e documenti, parla al telefono: “Allora, questo favore… sì certo è un onore per te… (rivolta al pubblico) Uffa c’è un limite, io sono circondata da ruffiani, ma questo esagera… Zitto!… Va bene, sono la migliore di tutte, lo so… allora… ho qui una lista di nomi… di rompiballe che vogliono fare la televisione… Attori? Che ne so, sono amici di amici, amanti, reggipalle eccetera… hai solo una parte da centurione? Va bene, è sempre un soldato, va bene…io te lo mando, poi cazzi tuoi”. Arriverà quel momento, saremo al potere, avremo intorno file infinite di adulatori, e saremo molto migliori di così (dopo qualche piccola ma tremenda vendetta).

Annalena

mercoledì 26 gennaio 2011

giovedì 20 gennaio 2011

Corte costituzionale

Adulazioni e lusinghe che avvengono in modo conforme alla Carta fondamentale.

Elio rubacuori



Song of the week

Lavoro allo S.C.O.P.A.S.I.R.

E mi occupo di servizietti segreti.

Qui-orinale

mercoledì 19 gennaio 2011

sabato 15 gennaio 2011

Il brullo all'imbrunire

Compito della parola: sul modello del Dizionario affettivo della lingua italiana, di Matteo B. Bianchi, scegliete una parola che vi piace e dite perché.

Nel sussidiario e nei libri che leggevo da piccola, bisognava sempre stare attenti all’imbrunire. All’imbrunire bisognava tornare a casa e all’imbrunire spuntavano tutte quelle creature della notte che di giorno non sono visibili e quindi ti dimentichi che esistano. Per molto tempo “l’imbrunire” l’ho immaginato come una soglia che bisognava attraversare con terrore e eccitazione. Nel mio dizionario privato ‘l’imbrunire’ era come il ‘barrito’ che era solo dell’elefante e il ‘garrito’ solo delle rondini, parole che infilavi nel tema se volevi fare bella figura con la maestra.
Poi, quando sono diventata più grande, ho cominciato a capire cos’era l’imbrunire mettendomi a osservarlo, e allora mi sono accorta che, per prima cosa, l’imbrunire era un verbo.
Io imbrunisco quando arriva la sera, tu imbrunisci pure tu, il tronco dell’albero imbrunisce in inverno, le foglie imbruniscono in autunno, e, forse non ci avete mai pensato, ma imbrunite anche voi ogni tanto.
In Olanda non potevo aspettare l’imbrunire in inglese ma solo in italiano, ché la parola corrispondente in inglese non c’era, e se c’era, era una parola corta, liscia e fredda. E invece a me di ‘imbrunire’ piace che è una parola morbida, che ti fa muovere le labbra e la lingua. E ti fa venire freddo.
L’imbrunire, nel mio dizionario privato, sta fra ‘brullo’ e ‘crepuscolo’, che sono altre due parole che mi piacciono. Il crepuscolo mi sa di crepe, di tombe, di polvere e di finestre in inverno. Il crepuscolo non lo vedi, lo senti dentro, e di solito è qualcosa che accade fuori mentre tu sei a casa. A una certa ora tutte le luci in casa si smorzano, si alzano le ombre e ti accorgi che devi accendere la luce, perché non ci vedi più. Ma ti mette l’angoscia l’idea di accendere la luce. Di già? È già notte? E allora resti lì nella camera buia a leggere nonostante il buio che si ispessisce. Rimani lì ostaggio del crepuscolo, a lottare contro una strana nostalgia che comincia a diffondersi dappertutto, sotto la pelle.
‘Brullo’ invece viene prima perché, come imbrunire, sa di terra. Il “terreno brullo” è un’altra di quelle soglie invalicabili della mia infanzia, che neanche lo visualizzavo un terreno brullo, e forse neanche mai lo avevo visto, ma inesorabilmente la parola brullo mi metteva freddo allo stomaco e mi faceva pensare all’imbrunire che cadeva sul terreno brullo, all’ora del crepuscolo.

Paolo Nori blog

venerdì 14 gennaio 2011

Il PD, cioè Veltroni

Riescono ad essere prevedibili e noiosi anche quando si dividono, quando affrontano lo psicodramma della frammentazione e del vuoto di leadership, che in altri contesti ha sempre qualcosa di spettacolare. Bersani è una gran brava persona, gli spezzoni di corrente che partecipano o partecipavano alla sua coalizione elettorale pullulano di figure rispettabili, cattolici modernisti e riformatori, post comunisti e amministratori che sanno il fatto loro, ma il Pd è Veltroni. Veltroni, che fu chiamato per salvare il progetto e dargli un'anima quando tutto sembrava crollare addosso alla vecchia nomenclatura dei Ds e della Margherita, tradì se stesso e i presupposti della sua elezione via primarie per scarsa fantasia, scarso coraggio. Prima fece la disastrosa alleanza elettorale con Di Pietro, poi si intruppò in un "caminetto" dei capi, si negò scelte radicali e significative di lotta interna e di riforma culturale per affermare il suo modello di partito, fino al clamoroso abbandono; ma senza la vocazione maggioritaria, cioè senza l'idea di costruire il fulcro di un'alternativa di governo, e di farlo con una struttura ad arcipelago, capace di riunire in una nuova forma politica post partitica le energie sparse di una sinistra postcomunista e post democristiana alla deriva della storia, il Pd non esiste, è un ferrovecchio mascherato da novità, è un coacervo di contraddizioni su ogni tema, economia, società, istituzioni, politica estera, questioni bioetiche, azione parlamentare e politica. Senza quel tanto di anima che era implicito nella scelta di Veltroni e, al di là della retorica della bella politica, nel progetto di ingaggiare Berlusconi sul terreno di un sostanziale bipartitismo, di un bipolarismo legittimato solo e soltanto dal consenso elettorale, senza tutto questo, come si vede, il Pd è una stella spenta o una parata di vecchie leadership, rispettabili, che hanno avuto un ruolo nella storia del paese, ma inefficaci e incoerenti dentro lo stesso involucro.

Stanno lì a litigare su cose ovvie, e le rendono serpentine, velenose, impossibili. Le primarie? Ma è ovvio che sono il bene legittimante, l'unico, di cui dispone oggi il Pd: si dovrebbe passare dalle primarie "private" all'iniziativa per una riforma istituzionale che estenda quel metodo, lo leghi alla scadenza fissa dei mandati e a una generale riforma dell'assetto politico di sistema. Invece stanno lì a cincischiare, qui si fanno, qui no, e se si fanno e si perdono soffrono come bambini insoddisfatti e capricciosi. Le alleanze? Sono tattica parlamentare e forse elettorale, e invece diventano costitutivi elementi di identità per le correnti coalizzate le une contro le altre, tutti a ricasco di un terzo polo che non esiste. Mirafiori? Dovevano prendere il dirigente Fassino, dopo la sua dichiarazione per il sì, e associarlo al sindaco Chiamparino in una commissione con pieni poteri di sostegno alla Cgil di Camusso e di attacco creativo e significativo alla Fiom pietrificata di Landini in nome di una campagna per nuovi criteri di rappresentanza e per un aumento generalizzato dei salari. Invece oscillano e non si fanno capire nemmeno da se stessi, blaterando dello scambio tra salari e diritti. Con gli scampoli moralistico-costituzionali del pensiero di Stefano Rodotà non si fa un partito che coalizza interessi e concorre per il potere in una società moderna, al massimo un club che mastica argomenti del secolo scorso.
G.Ferrara