domenica 30 settembre 2012

Ridicolo

Sono un uomo ridicolo. Adesso poi loro dicono che sono pazzo. Sarebbe un avanzamento di grado, se per loro non rimanessi pur sempre ridicolo come prima. Ma adesso ormai non mi arrabbio più, adesso li trovo tutti cari, anche quando ridono di me, allora, anzi, li trovo persino per qualche motivo particolarmente cari. Mi metterei addirittura a ridere anch'io assieme a loro,non di me stesso, ma per amor loro, se non provassi tanta tristezza a guardarli. Provo tristezza perché essi non conoscono la verità, mentre io la conosco. Oh, che pesante fardello è essere i soli a conoscere la verità! Ma loro questo non lo capirebbero. No, non lo capirebbero.Prima, invece, mi amareggiava molto il fatto di apparire ridicolo. Non di apparire, di essere ridicolo. Sono sempre stato ridicolo, e lo so, forse, fin da quando sono nato. Forse sapevo di essere ridicolo già fin da quando avevosette anni. Poi ho studiato, prima a scuola, poi all'università, e quanto più studiavo, tanto più imparavo che ero ridicolo. Così che per me tutta la mia scienza universitaria, in fin dei conti, pareva esistere soltanto per dimostrarmi e spiegarmi, mano a mano che mi addentravo in essa, che ero ridicolo. Come nella scienza, così mi accadeva nella vita. Anno dopo anno cresceva e si rafforzava in me quella medesima consapevolezza del mio essere ridico losotto tutti gli aspetti. Di me ridevano tutti e sempre. Ma nessuno di loro sapeva né sospettava che se c'era al mondo una persona che meglio di tutti gli altri era consapevole di essere ridicola, quella ero io, e proprio questa era la cosa che mi faceva più rabbia, il fatto che essi non lo sapessero, benché di ciò fossi io il colpevole, infatti io sono sempre stato così orgoglioso che mai e per nulla al mondo ho voluto confessarlo a nessuno. Questo orgoglio è cresciutoin me con gli anni e se fosse avvenuto che davanti a chicchessia mi fossi lasciato andare a riconoscere che ero ridicolo, quella sera stessa, sui due piedi,mi sarei fracassato il cranio con una rivoltella...

venerdì 27 aprile 2012

Cosa non deve esserci nella casa di un uomo

Nell'appartamento niente mutande Spanx, foto della mamma ovunque, una donna

Lo stenditoio con i calzini rinsecchiti al centro del salotto. Un unico piatto sporchissimo, stratificato, nel lavello. Un cassetto pieno di pigiami di flanella e di camicie di Paperino. Le foto della mamma anche in bagno. La crema che sgonfia le borse sotto gli occhi. La lista delle cose che si spera di non trovare quando si entra, di solito di notte, nell’appartamento di un uomo (oltre a una donna sotto la doccia, o a dei coinquilini in mutande che guardano un film porno) è lunga, ma ci sono cose che è meglio scoprire subito, ad esempio se si fa la piastra ai capelli e se ha lenzuola con i gattini. Dopo aver cercato per la seconda parte della notte prove dell’esistenza di un’altra donna, si accoglierà l’alba rovistando ovunque, mentre lui russa, senza tralasciare la scatola ricordo con i dentini da latte (non un bel segno) e il cassetto della verdura in frigorifero, che per escludere nevrosi dovrebbe essere mediamente ammuffito, con al massimo una busta d’insalata scaduta, a meno che non vogliate essere messe a dieta anche da un maschio eterosessuale.
L’Huffington Post ha lanciato una specie di sondaggio su cosa dovrebbe necessariamente esserci nella casa di un uomo (apparentemente single, divorziato, spretato, insomma sul mercato) affinché una donna esca da lì, la mattina dopo, soddisfatta, immaginando già una serie di piccoli lavori di ristrutturazione che seguirà personalmente nei mesi precedenti il matrimonio. In cima alla classifica dei desideri, oltre agli asciugamani puliti e a una libreria non piena soltanto di modellini di automobili e foto di ex fidanzate in bikini, c’è una pila di “New Yorker” accanto al divano, meglio se con etichetta con nome che provi l’esistenza di un abbonamento (molte hanno replicato che non sono affatto snob, si accontenterebbero di un bagno vagamente igienizzato e di un vero letto con lenzuola e cuscini, e subito un uomo ha scritto: perché voi donne siete così dannatamente materialiste? un altro: il bagno pulito? la cartigienica a tre strati? è roba così gay). In effetti certe pretese, come quella di piante ancora in vita, lavandino senza resti di barba, un frigorifero con dentro cibo sano e almeno un mobile non Ikea, sembrano eccessive. State cercando un uomo o Bree Van de Kamp? L’appartamento di un uomo, nella storiografia classica, doveva suscitare il desiderio crocerossino di cura: io ti salverò, io ti cucinerò, io ti arrederò, io ti libererò dai cartoni della pizza. Invece adesso alla casa di un uomo si chiede: rassicurami, fammi vedere dov’è l’iPad, dammi la connessione wireless, lasciami guardare che marca di birra tieni in frigo, posso usare il tuo bagnoschiuma ai fiori di loto?

L’istinto di cura ha lasciato il posto a un più sano senso dell’autoconservazione e dello sfruttamento, per cui è probabile che non si entrerà una seconda volta in un appartamento con teste di animali impagliati alle pareti, troppe pillole blu sul comodino, pesci tropicali agonizzanti e molti cadaveri negli angoli a forma di mucchietti di biancheria sporca. Si consiglia di diffidare anche delle cravatte hawaiane in bell’ordine, della dispensa colma di preparati proteici per una dieta perenne, dei cassetti pieni di mutande Spanx e in genere delle case abitate a loro insaputa.
Annalena

sabato 3 marzo 2012

Quasi amici

Sembra un film facile, invece è complicatissimo non cadere nel ridicolo, nel grottesco, nella lacrima facile, nella denuncia sociale puramente retorica, nei cliché di razza, nel melodramma. Il film si mantiene in un equilibrio delicatissimo grazie ad un'ironia perfetta.

domenica 8 gennaio 2012

Patrioti della nostra dolce incuria

Che il 2011 sia stato l’anno del nostro risveglio patriottico, come hanno detto Giorgio Napolitano, Giuliano Amato e chissà quanti altri, credo che sia un’iperbole retorica di circostanza più che un dato di fatto. Una cosa seria e profonda come il risveglio del sentimento di appartenenza nazionale non arriva così puntualmente agli appuntamenti con il calendario. Improvvisamente, tutti a cantare l’inno di Mameli facendo finta di sapere che cosa è stato il Risorgimento: ma la maggioranza di chi l’altro giorno ha visto in tv il film di Mario Martone sul nostro Ottocento rivoluzionario riusciva a malapena a distinguere chi era Mazzini.
Le cerimonie per l’anniversario e le emozioni che le accompagnano vanno anche rispettate, ma sono forma, non sostanza, e parlando in termini di psicologia per principianti c’è una differenza fra emozione e volontà, fra un brivido e un proposito, fra un proposito e la sua attuazione. Quella bella frase del principe di Salina nel “Gattopardo”, secondo cui “i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti”, potrebbe essere estesa a tutti gli italiani: perfezione a parte, siamo immodificabili, i nostri peccati e difetti sono ciò che nella penisola rende la vita moralmente esasperante e inaccettabile, ma esteticamente dolce, cosa che qualunque protestante del nord d’Europa nota subito.

Siamo il paese della bellezza e dell’incuria: sogniamo che la bellezza non venga distrutta, come avviene, dall’incuria: cioè siamo cattolicamente pagani, come se qualcosa di divino o di provvidenziale dovesse salvarci. Nella nostra proverbiale incredulità, noi italiani siamo uomini di fede a cui le opere non piacciono e sembrano irrilevanti. Il nostro è il paese e il popolo dell’espressione, non dell’azione. Anche la politica, che dovrebbe essere azione per eccellenza, la viviamo e ci seduce come modo di esprimerci, come autorappresentazione, teatro e spettacolo ininterrotto. Questa vocazione collettiva ha raggiunto il punto più basso della tollerabilità, via tv, con il berlusconismo e l’antiberlusconismo, fenomeni stilistici inscindibili più che complementari.

Berlusconi per quasi vent’anni è riuscito a modellare la sinistra a propria immagine: l’ha ipnotizzata costringendola a pronunciare ossessivamente il suo nome (la parola più usata dagli italiani) facendosi odiare in modo paranoico al di là del dovuto. E la paranoia distrugge e divora le idee politiche, le trasforma in armi improprie, sassi e bastoni, “vaffanculo!” e “arrestatelo!”, come può avvenire soltanto nel paese della Commedia dell’Arte, in cui non ci sono personaggi ma maschere e teste di legno su cui picchiare. Certo, dando un’occhiata alle nostre quotazioni sui mercati internazionali ci siamo allarmati tutti. Il nostro narcisismo è stato scosso. E, come sempre è avvenuto, quando qualcuno o qualcosa ci offende, ci inalberiamo seriamente, ma la cosa dura poco, come ogni manifestazione reattiva. Che si mostri patriottica quell’ottima e preparata persona che è il presidente Napolitano, è più che comprensibile, anzi doveroso per un’alta carica dello Stato. Solo che lo Stato non è affidabile come fonte di pensiero e di conoscenza: deve fingere che il bicchiere della propria autorevolezza sia sempre pieno e perciò compensare con la retorica, onesta o disonesta, il vuoto creato dalla mancanza di buon governo.

Lo Stato: il nostro problema è lo Stato. Ci sarebbe necessario, in linea di principio, come correzione al Mercato, ma il nostro Stato è poco credibile, è debole, corrotto, parassitario, vampiresco e occupato, in ogni fase della nostra storia e nei modi più creativamente diversi, dalla voracità animale dei partiti.
I partiti: il nostro problema sono i partiti, la loro litigiosità, la loro miope “coerenza” con se stessi, il loro paralizzante spirito di parte. Ma lo spirito di parte da noi distrugge il senso dello Stato e il senso patriottico di appartenenza. Lo Stato dovrebbe gestire, governare, mediare, moderare le divisioni e le diversità sociali e territoriali. Anche la Spagna, il Regno Unito, gli Stati Uniti, la Russia hanno questi problemi. Ma loro hanno, sono una patria. Noi no. La nostra storia è troppo lunga e complessa, una storia di divisioni e di asservimenti secolari, e perciò la subiamo ignorandola. Siamo bambini decrepiti, smemorati e istintivi anche nella capziosità e sofisticheria.

Ecco, la nostra storia: il problema è la nostra storia. Le accelerazioni storiche, le rivoluzioni identitarie, indipendentiste o di classe, hanno bisogno di droghe ideologiche e di uomini risoluti. Il Risorgimento è stato l’invenzione, la costruzione di un’identità culturale italiana più volenterosa che effettiva, un’identità fondata sul bisogno di liberarci dal dominio straniero e alimentata da una prassi insurrezionale, estremistica, cospirativa, terroristica, che aveva bisogno di creare i suoi eroi e i suoi martiri, di diffondere un orgoglio nazionale ispirato dalle tombe e dalle glorie di un passato ormai remoto, reso inoperante dalla modernità borghese. Foscolo e Mazzini, Garibaldi e De Sanctis hanno fatto questo.
A.Berardinelli

sabato 22 ottobre 2011

Onore e armi in pugno


Onore e armi in pugno. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure per fecondare l’Africa.
Sarà tutto tempo perso, dunque, sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.
Come i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato.
Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco. La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza.
Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. L’unica cruda verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’ veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta specializzata.
Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Quando gli eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar, restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse preghiera e romitaggio.
Come c’erano una volta i nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro l’onore delle armi, offrire loro un sudario.
Sempre hanno saputo morire i nemici. E tutti quei corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti, tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa generosità, mette a nudo la nostra menzogna.
A ogni pozza di sangue corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che fare le dà un’altra pestata, non si sa mai. Così come il black bloc, anche Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere solo canaglie. La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire.
P.Buttafuoco

mercoledì 19 ottobre 2011

Cara Italia

''Caro Primo Ministro, Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorita' italiane per ristabilire la fiducia degli investitori. Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che ''tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali''.

Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilita' di bilancio e alle riforme strutturali. Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti. Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di piu' ed e' cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualita' dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano piu' adatti a sostenere la competitivita' delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.

a) E' necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.

b) C'e' anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi piu' rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.

c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori piu' competitivi.

2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilita' delle finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorita' italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. E' possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo piu' rigorosi i criteri di idoneita' per le pensioni di anzianita' e riportando l'eta' del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, cosi' ottenendo dei risparmi gia' nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.

b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sara' compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.

c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorita' regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. Vista la gravita' dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda piu' stringenti le regole di bilancio.

3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacita' di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'e' l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali. Confidiamo che il Governo assumera' le azioni appropriate. Con la migliore considerazione, Mario Draghi, Jean-Claude Trichet. - 5 agosto 2011

domenica 2 ottobre 2011

sabato 23 luglio 2011

Oriana la liberale

Xenofoba, razzista, intollerante, violenta, ignorante, sgangherata, semplicistica. Mentre vendeva tre milioni di copie, la Trilogia di Oriana Fallaci (La Rabbia e l’Orgoglio, La Forza della Ragione, Oriana Fallaci intervista se stessa. L’Apocalisse) fu accolta con questi giudizi da colleghi (a esempio, Tiziano Terzani, fan di Pol Pot), storici (Franco Cardini, cattolico innamorato di Maometto) e scrittori (Valerio Evangelisti, ammiratore dell’assassino Cesare Battisti). Dalle parole si passò ai fatti giudiziari: in nome del politicamente corretto alcuni processi-farsa furono istruiti contro la Fallaci a Parigi, in Svizzera, a Bergamo. Gli attuali custodi della libertà d’espressione, all’epoca non trovarono nulla da obiettare.
Sono trascorsi dieci anni da La Rabbia e l’Orgoglio, cinque dalla morte dell’autrice. Oggi tutti riconoscono la grandezza della Fallaci, anche chi ha passato il tempo a denigrarla, a patto di rimuovere gli ultimi libri ritenuti ancora «impresentabili». La vulgata è questa: fu una grande donna moderna e illuminata fino a quando prese ad attaccare il mondo arabo. Quella – ci ha spiegato Monica Guerritore in un recente spettacolo teatrale – non era più la «vera» Fallaci. Era piuttosto una vecchia malata, colma di rancore e vittima della solitudine. È uno dei due artifizi con i quali mortificare l’originalità di Oriana Fallaci, rendendola inoffensiva. L’altro, meno grave e incoraggiato dalla scrittrice stessa, è definirla «anarchica». Titolo in Italia conferito sempre a sproposito a chi non rientra nei consueti schemi politici. Lei ci scherzava, quando minacciava di chiamare i suoi amici anarchici per far saltare in aria eventuali minareti irrispettosi del paesaggio toscano. L’anarchia però è cosa seria e ha connotazioni precise sia a sinistra sia a destra.
Piuttosto Oriana Fallaci si muove, con la massima consapevolezza, all’interno del pensiero liberale. Sempre. Anche quando carica a testa bassa il Corano e i suoi seguaci. Ma quale razzismo... L’anarchia poi non c’entra un fico secco, come testimonia la sua ammirazione per una certa idea di Stato e per una certa classe politica: più volte, nella Trilogia e nel romanzo Un cappello pieno di ciliege, emerge la passione per il Risorgimento e la destra storica. C’è poi la Fallaci ex staffetta partigiana delle formazioni di Giustizia e libertà. Antifascista ed egualitaria, pronta però a scrivere che troppa uguaglianza conduce al collettivismo e uccide la libertà. Lontana quindi dalle idee socialiste che hanno avuto successo tra gli azionisti e i loro epigoni. Infine c’è l’«atea cristiana», il cui tragitto spirituale si svolge per intero all’ombra di Benedetto Croce e del suo Perché non possiamo non dirci cristiani.
La lotta contro l’islam non è una battaglia contro l’immigrato. È una guerra alla teocrazia introdotta subdolamente nei Paesi democratici. Le comunità arabe rifiutano l’integrazione, facendo leva sul multiculturalismo frettoloso di un Occidente incapace di apprezzare (e dunque difendere) la libertà conquistata a caro prezzo. Il risultato? Alcuni quartieri delle nostre città obbediscono alla sharia. «Al novantacinque per cento – si legge in La Forza della Ragione – i musulmani rifiutano la libertà e la democrazia non solo perché non sanno di che cosa si tratta ma perché, se glielo spieghi, non capiscono. Sono concetti troppo opposti a quelli su cui si basa il totalitarismo teocratico. Troppo estranei al tessuto ideologico dell’Islam. In quel tessuto ideologico è Dio che comanda, non gli uomini.
Un Dio che non lascia posto alla scelta, al raziocinio, al ragionamento». Un musulmano deve obbedire alla sharia anche quando prescrive norme inconciliabili con la nostra Costituzione. È il caso della poligamia. O del trattamento da riservare a mogli e figlie. Il Corano ordina la sottomissione e l’obbedienza al marito. Le nostre leggi però stabiliscono l’uguaglianza dei sessi, difendono la libertà della donna, vietano atti discriminatori nei suoi confronti.
Possiamo derogare alle nostre regole? Ovviamente no. Per spiegare al lettore quale sia la posta in palio, la Fallaci nella Forza della Ragione usa le parole del grande economista liberale Friedrich von Hayek a proposito della Russia bolscevica e della Germania nazista. «Qui non si abbandonano soltanto i principii di Adam Smith e di Hume, di Locke e di Milton. Qui si abbandonano le caratteristiche più salde della civiltà sviluppatasi dai greci e dai romani e dal Cristianesimo, ossia della civiltà occidentale. Qui non si rinuncia soltanto al liberalismo del 1700 e del 1800, ossia al liberalismo che ha completato quella civiltà. Qui si rinuncia all’individualismo che grazie a Erasmo da Rotterdam, a Montaigne, a Cicerone, a Tacito, a Pericle, a Tucidide, quella civiltà ha ereditato... Chiunque neghi l’individualismo nega la civiltà occidentale».
Quando si tratta di capire i motivi per cui l’Europa assiste muta alla possibile disintegrazione dei suoi valori fondanti, la Fallaci ricorre al padre del liberalismo prediletto, citato sulla pagina e in privato: Alexis de Tocqueville, l’autore di La democrazia in America (e di lettere feroci contro il Corano). In fondo il nostro male è barattare libertà per collettivismo, spogliandoci così di ogni responsabilità. Ecco il passo, ancora dalla Forza della Ragione: «Forse Tocqueville \ si riferiva a noi italiani quando diceva che il matrimonio su cui si basa la democrazia, il matrimonio dell’Uguaglianza e della Libertà, non è un matrimonio riuscito. Che non è riuscito perché gli uomini amano la libertà assai meno dell’uguaglianza, e la amano assai meno perché sfociando nel collettivismo l’uguaglianza toglie agli individui il peso delle responsabilità. Perché non esige i sacrifici che esige la libertà, non richiede il coraggio che richiede la libertà, non ha bisogno della libertà». Anche il declino delle classi dirigenti ha una spiegazione «tocquevilleana»: in democrazia i voti «si contano ma non si pesano. Sicché la quantità finisce col valere sulla qualità». Al governo talvolta vanno i peggiori: quelli che cercano il compromesso e, temporeggiando, lasciano morire il paziente ammalato.
Croce, Hayek, Tocqueville. Libertà, individualismo, tirannia della maggioranza. Altro che xenofoba. Altro che vecchia rancorosa. Altro che anarchica. Per descrivere Oriana Fallaci, e capire quanto fosse isolata, basta una parola: liberale.
A.Gnocchi

martedì 28 giugno 2011

Gheddafi il beduino

"Colonnello, come conciliate un simile disprezzo per il mondo occidentale e gli affari che fate con i suoi maggiori esponenti, con Gianni Agnelli, ad esempio?”. “Gianni chi?”, risponde stupito il rais. “Gianni Agnelli, il presidente della Fiat”. “La Fiat? La mia azienda, my company!”. Con questi pochi tratti di penna Oriana Fallaci ha scritto il miglior ritratto di Muammar Gheddafi, quando lo intervistò il 2 dicembre del 1979. Tutto è “mio” per il dittatore di Tripoli, che poco si interessa ai particolari, anche se sono della statura di Gianni Agnelli.
L’iperego del rais non ha soltanto componenti di natura caratteriale, ma anche di matrice etnica. Perché tutto, dall’inizio alla fine, nella vita di Muammar Gheddafi è marcato da una concezione beduina e tribale non soltanto del suo paese, ma del mondo intero. Al colonnello non poteva neanche passare per la testa che la Fiat, pagata con i fondi sovrani dello stato libico, non fosse la “sua” fabbrica, di proprietà personale, come tutto quanto toccava e muoveva. Le guerre (anche quella che avrebbe voluto dichiarare alla Svizzera, colpevole di avergli maltrattato un figlio capriccioso), gli affari, i commerci, la diplomazia, il terrorismo dal 1969 a oggi sono stati monopolizzati dalla concezione beduina di Muammar Gheddafi. La tenda beduina che il rais piantava dappertutto nelle sue visite di stato, fosse villa Doria Pamphilj o nel giardino di Palais Marigny, adiacente all’Eliseo, è stato il suo rivendicato ed efficace simbolo-feticcio.
Gheddafi non ha mai aspirato a essere e ad agire come un capo di stato (concetto che gli è sempre stato estraneo), men che meno come un leader politico o religioso, o come l’amministratore di una immensa ricchezza in petrodollari. Tutte queste funzioni si riassumevano, confusamente, come confuso fu il suo Libro verde, nel fatto di essere il rais, il capo della tribù più potente del suo paese, che doveva dominare, con le buone o con le brutte, le tribù concorrenti con un reticolo di alleanze, tradimenti, matrimoni, trappole e furbizie tese a mantenere la loro sottomissione. A partire dal millenario punto di forza dei leader beduini: il controllo dei pozzi. Un tempo di acqua, ora di petrolio. Con una estraneità totale, nativa, culturale, per tutto quanto obbligasse a “lavorare la terra”, a impiantare opifici e fabbriche. Il suolo, per un beduino, va dominato soltanto per quel che danno le sue viscere. Al meglio. Null’altro.
Il tutto immerso in un elemento di mistero, nel quale si nasconde la risposta al clamoroso errore sulla sua resistenza (e sulla sua capacità di sfuggire al killeraggio missilistico) compiuto dalla coalizione voluta da Nicolas Sarkozy, David Cameron e Barack Obama. Il mistero riguarda la struttura decisionale, il funzionamento di un quadro di comando libico che ha sempre dimostrato di essere in grado di fare fronte a una serie complessissima di operazioni. Si guardi al cruciale biennio 1975-1977 e si vedrà come il colonnello, con una struttura di potere assolutamente monocratica, è riuscito contemporaneamente a condurre due guerre (Ciad e Egitto), acquistare la quota di minoranza nella Fiat, dirigere il rapimento dei ministri Opec a Vienna e infine a delineare la nuova ideologia del regime, lanciando con una grande operazione mediatica il suo confuso Libro verde. Il tutto avviando complesse trame terroristiche, vuoi con Abdu Nidal e Settembre Nero (in raccordo con la Stasi della Ddr), vuoi finanziando la Rote Armee Fraktion, la Eta basca e l’Ira irlandese. Una mole poderosa e intricata di iniziative e dossier, gestiti tutti attraverso il Diwan della “tenda beduina”, che ne ha garantito, oltre ogni analisi e aspettativa, la sopravvivenza, nonostante più di tremila operazioni della Nato.La vita di Muammar Gheddafi, nato a Sirte il 7 giugno 1942, fu segnata, secondo gli agiografi libici, da un episodio drammatico, ovviamente impossibile da verificare: mentre giocava con due cugini esplose una mina – forse italiana, forse inglese – che straziò i due parenti e lo ferì a un braccio. Se vero, l’episodio potrebbe spiegare alcune cose. La sua formazione scolastica fu affidata alla madrassa di Sirte, in cui fu preso dall’entusiasmo per il vento che allora percorreva tutto il Maghreb: il panarabismo di Gamal Abdel Nasser, suo punto di riferimento forte, per alcuni anni a venire. Iscritto all’Accademia militare di Bengasi, si specializzò in Gran Bretagna (dove apprese discretamente l’inglese, che però ha sempre finto di ignorare in tutte le visite ufficiali, così come l’italiano, peraltro).
Molti analisti – non senza ragione – considerano questa specializzazione all’estero come prova certa dei legami del futuro rais con i servizi segreti inglesi, che avranno un ruolo determinante nel golpe del 1969. A 27 anni fu capitano dell’esercito e subito entrò in contatto con un gruppo di giovani ufficiali che – su sollecitazione discreta vuoi dei servizi inglesi, vuoi del Sid italiano – il 26 agosto 1969 organizzò un incruento colpo di stato contro il re Idris. Sono evidenti le ragioni che spinsero inglesi e italiani – saldamente già radicati in Libia con i loro impianti estrattivi – a cercare un interlocutore meno vacuo e assenteista (e per di più odiato dai tripolitani, perché membro di una dinastia della Cirenaica) al timone della Libia. Erano fortissime anche le ragioni che motivarono i giovani ufficiali, scandalizzati per la decisione di re Idris di non partecipare alla guerra contro Israele del 1967 – in un paese che reagì alla sconfitta dando vita a pogrom sanguinosi contro la storica comunità ebraica.
Il golpe riuscì senza spargimenti di sangue. Gheddafi si mise subito al comando, a fianco di Abdessalam Jallud – suo braccio destro sino al 1993, quando cadde in disgrazia – e di Abdel Fattah Younis al Obeidi, che, dopo anni spesi a occuparsi della repressione interna, oggi comanda gli insorti di Bengasi (appartiene alla tribù degli Harabi della Cirenaica, alla testa della ribellione). Il colpo di stato fu accolto con indifferenza nelle cancellerie europee e salutato con simpatia dalla sinistra comunista, Pci in testa, in quegli anni convinta – su impulso sovietico – che il nasserismo di cui Gheddafi fu inizialmente alfiere fosse il massimo del “progresso”, la punta di diamante del “fronte antimperialista”, in un contesto in cui Israele era definito “quinta colonna dell’imperialismo americano” e i palestinesi ricoprivano il ruolo di vietcong.
La matrice panaraba e quindi ferocemente antiisraeliana (e antisemita) del giovane colonnello fu indubbiamente determinante nella sua ascesa, ma si rivelò di breve durata. L’unificazione tra Libia, Egitto e Siria, che Gheddafi proclamò solennemente nel 1972, non fu mai realizzata a causa della assoluta nebulosità del progetto e della totale diffidenza di Anwar el Sadat, che da allora in poi definì il rais “quel pazzo di Tripoli”.
Identica sorte ebbe il tentativo concordato l’8 gennaio del 1974, da Gheddafi e dal tunisino Bourghiba, che, dopo un incontro improvviso in un hotel di Djerba, annunciarono la fusione dei due stati e la nascita della Repubblica arabo islamica che univa Libia e Tunisia. Il progetto, finito rapidamente nel dimenticatoio, non è mai decollato. Sono due fallimenti che giocheranno un ruolo esiziale sul futuro economico dell’Africa mediterranea.
L’impostazione tutta ideologica e verticistica del panarabismo, sommata alla superbia personale dei dittatori, fece fallire le fantasiose unificazioni statali e creò strascichi polemici e diffidenze (anche guerre, come vedremo) tra i paesi nordafricani. Ne conseguì una politica di frontiere chiuse e la totale assenza di relazioni economiche, investimenti reciproci, commerci, creazione di infrastrutture comuni che – come è avvenuto in Europa – grazie alla formidabile possibilità di finanziamento da petrolio, avrebbe potuto trasformare questi paesi in una potente area di sviluppo, invece che in quella riserva di sottosviluppo cui sono ridotti oggi (Libia inclusa).
Da subito, il nuovo regime lasciò trapelare il tratto più profondo, istintivo, innegabile del nuovo rais: la ferocia. Innanzitutto e sempre nei confronti del suo stesso popolo, con le centinaia di impiccati senza processo (anche per aver fischiato Saadi, il figlio calciatore di Gheddafi, allo stadio), con la negazione di qualsiasi spazio di libertà, con la persecuzione (omicidi mirati e torture incluse) dei suoi potenziali avversari, con la negazione della pur minima libertà di stampa e di pensiero e anche con episodi grotteschi, come quello dell’imprigionamento per ben otto anni e della successiva condanna a morte di sei infermiere bulgare, liberate nel luglio 2007, accusate di avere volutamente infettato di Aids alcuni pazienti. Ferocia dispiegata con incredibile fantasia e attivismo sul piano esterno, a partire dall’odio fanatico, con chiare venature di antisemitismo, per Israele, stella polare della sua politica estera. Odio che si è concretizzato – dato indicativo della strategia gheddafiana – nel finanziamento delle organizzazioni terroriste più spregiudicate e sanguinarie e mai – neanche nel 1973 – nel contrasto militare in campo aperto. Odio che ha scavato anche un ulteriore abisso nei confronti della leadership dell’Arabia Saudita (già motivato dai legami religiosi dei wahabiti con la Senussiyya, la confraternita della Cirenaica, legata a re Idris e centro delle attività secessionistiche di Bengasi), accusata per la sua alleanza con gli Stati Uniti e per lo stesso piano di pace con Israele propugnato da re Fahad.
Gheddafi è stato dunque essenzialmente un uomo capace e straordinariamente feroce, che si è circondato di uomini feroci. Lo dimostrò nel modo con cui saldò i conti con l’Italia: nel momento stesso in cui siglava contratti faraonici con l’Eni, Gheddafi emise, il 21 luglio 1970, un decreto di confisca di tutti i beni – inclusi i contratti Inps – dei 20 mila italiani residenti in Libia e li espulse in massa, imponendo la data limite per la fuga del 15 ottobre del ’70. La decisione del rais è in linea con la sua feroce furbizia beduina: non colpì affatto l’Italia, con cui anzi intrattenne fruttuosi affari, ma depredò tutti gli italiani che aveva sottomano. Pratica, peraltro, “copiata” dal mentore Nasser, che nel ’56 aveva fatto una mossa simile, ma in modo più sottile, nazionalizzando tutte le imprese e le attività degli stranieri, italiani in testa.
Stesso esito per questa diaspora forzata dei nostri connazionali: la rovina e la chiusura della rete di piccole industrie, aziende agricole moderne, attività artigianali meccanizzate impiantate dagli italiani che, nazionalizzate o confiscate, nel giro di pochi mesi andarono in rovina con un immenso danno economico per l’Egitto, come per la Libia. Naturalmente, la Libia di Gheddafi nazionalizzò anche le proprietà petrolifere straniere, ma non destò stupore, perché il fenomeno coinvolgeva in quei primi anni 70 tutti i paesi produttori e fu subito assorbito con una rapida trattativa che elargiva alle società petrolifere concessioni redditizie (scelta imposta anche dal fatto che nessun paese produttore aveva la minima intenzione di investire i profitti da petrolio nei costosissimi impianti di estrazione, trasporto e raffinazione).

Carlo Panella (1/3)

domenica 12 giugno 2011

Riforme, Italia

Sul corriere di oggi l'articolo di Galli della Loggia sul perché non si possono fare le riforme in Italia. Simile concetto a quest'altro, di due anni fa, a firma Panebianco.

sabato 11 giugno 2011

Carlos

Belle facce, buona colonna sonora, belle auto, ottimi vestiti. Si parla francese inglese spagnolo tedesco arabo russo.

mercoledì 4 maggio 2011

Dio, patria, famiglia

«La beatificazione del Papa e la fol­la dei devoti a Roma, l’intervento in Libia e il compleanno d’Italia, il matrimonio nella famiglia rea­le inglese in mondovisione, il ri­nato patriottismo Usa dopo la morte di Bin Laden. Quattro even­ti planetari in una sola settimana hanno riacceso in forme diverse le luci su un’antichissima trinità: Dio, patria e famiglia. Era da tem­po che non si rivedevano insie­me. Che fine hanno fatto Dio, patria e famiglia? Sono stati per secoli l’orizzonte di vita e di senso dei popoli, poi si sono ritirati nel ruolo di bandiera ideale per movimenti conservatori e tradizionali. Ora sanno di arcaico e finito, servono più per etichettare posizioni antiquate altrui che per rivendicare le proprie. Con che cosa furono sostituite? Potremmo rispondere con nulla, o con il nulla eretto a orizzonte. O, storicamente, che furono sostituite con libertà, eguaglianza e fratellanza. O più semplicemente che furono barattate con l’individuo, i suoi diritti e la libertà sovrana di sentirsi cittadino del mondo, senza legami a priori. Sembra impossibile pensare a Dio, patria e famiglia. Chi li vive non li pensa e chi li pensa li ritiene già morti. Eppure Dio, patria e famiglia occupano ancora il pensiero supremo di metà umanità e la loro orfanità è avvertita come un vuoto dall’altra metà. Dio, patria e famiglia popolano i pensieri reconditi, i ricordi e i rimorsi più forti, animano l’arte,il sogno e la letteratura,resistono come nostalgia e sentimenti. Perché occupano rispettivamente la sfera del pensiero e della fede, della vita pubblica e civile, della vita intima e sentimentale. Si chiamano in modi diversi; per esempio senso religioso, senso comunitario e senso delle radici. L’uomo ha tre dimensioni originarie, che sono la sua umanità, la sua natura e la sua cultura: la dimensione verticale che ci spin-ge a tendere verso l'alto, la dimensione orizzontale che porta a situarci in una comunità e la dimensione interiore che induce a ritrovarsi nelle origini. In questo triplice viaggio verso il cielo, la terra e le radici, ci imbattiamo in figure e presagi che richiamano Dio, patria e famiglia. E se fosse necessario ripensarli e riviverli nel nostro presente e nel futuro prossimo? Se nascessero dalla loro scomparsa la presente disperazione, il cinismo e gli abusi, le paure e le chiusure? Se avessimo bisogno di quell’orizzonte per essere uomini e per legarci davvero tra noi? Davanti alla tabula rasa bisogna tornare all’abc. Come si possono pensare oggi Dio, patria e famiglia con la sensibilità del presente, senza tornare al passato? In primo luogo attraverso la libera scelta, nessun automatismo imposto da natura o storia, autorità o legge. Ma una libera e radicale scommessa tra caso e destino, tra libertà di assegnare significato o no all’origine, ai nostri legami, al nostro senso del sacro e del divino. Abbiamo bisogno di dare un senso alla vita, riconoscendovi un disegno intelligente; poi di avvertire un luogo come la nostra casa, la nostra matrice; quindi di nutrire legami speciali di comunità e tradizione. In secondo luogo dobbiamo risalire dalla buccia al midollo, all’essenza di quel senso religioso, comunitario e delle origini. Con amore totale per la verità, costi quel che costi, non cercando coperture retoriche e rassicuranti bugie. È onesto pensare che le forme storiche, lessicali e rituali in cui si manifestano Dio, patria e famiglia possano morire e mutare. Ma il tramonto di alcune fedi secolari, di convinzioni e strutture, non significa la fine di quegli orizzonti e del nostro bisogno. È importante distinguere tra le forme che passano e i contenuti che restano; capire cosa salvare, cosa rigenerare e cosa lasciar morire. In terzo luogo, oggi Dio, patria e famiglia vanno pensate non solo in loro presenza ma anche in loro assenza, attraverso la loro mancanza, e gli effetti che questa produce. Non possiamo negare che si tratta di princìpi sofferenti, sempre più cagionevoli e incerti. Non possiamo chiamarci fuori, fingere una purezza che non abbiamo; dobbiamo saper riconoscere che nella loro penuria ci siamo dentro anche noi, fino al collo; scontiamo anche noi cadute e incoerenze. Non ci sono incontaminati guardiani dell’ortodossia e dell’osservanza; anche noi esitiamo e spesso voltiamo le spalle. Dunque, nessuna pretesa di superiorità e di purezza rispetto agli altri; sia questa ragione di realismo e umiltà popolare.

In quarto luogo va tenuto a mente che nessuno può imporre il monopolio, il primato, l’esclusiva, del suo Dio, della sua patria e della sua famiglia. Amare Dio, patria e famiglia non vuol dire negare quelli degli altri; ma rispettarli tutti, a partire dai propri. Se neghi il Dio, la patria e la famiglia degli altri, neghi i tuoi. Se neghi ogni dio, ogni patria e ogni famiglia, neghi l’umanità, la dignità e l’identità tua, altrui e del mondo da cui provieni. Chi rinfaccia gli orrori compiuti in nome di Dio patria e famiglia, confonde la malvagità umana con i pretesti in cui è stata rivestita nei secoli. Anche la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e i diritti umani sono stati usati per imporre il terrore giacobino, le dittature comuniste, il fanatismo ateo; contro Dio, patria e famiglia. Infine, i corollari: via la cupa ortodossia, meglio l’ironica leggerezza. Via la scolastica ripetitiva, meglio l’educazione popolare a quei principi. Via il superbo individualismo o la sua variante settaria, meglio iscriversi nell’alveo popolare di un comune sentire e di una tradizione provata dall’esperienza. Non so se questo basterà per rigenerare nel tempo presente e in quello che viene l’amor patrio,familiare e divino. Ma non vedo altro all’orizzonte che meriti di suscitare passioni ideali e nulla che ricordi davvero la storia e la vita autentica, la cultura e la natura dell’uomo. Se fosse questo il compito ideale e civile, politico e morale di oggi? Pensateci, perlomeno. Per non morire nemocristiani, cioè figli di nessun cristo.»

M.Veneziani

Eredi

«Subisce il termine "erede" la stessa sorte di tanti altri preziosi "nomi", che la chiacchiera quotidiana consuma e dissipa. Si fanno merci anch'essi, il cui valore è relativo esclusivamente all'utilità che se ne ricava. Siamo eredi che ignorano l'essenza più nobile della nostra eredità: il linguaggio – e lo massacriamo come fosse un mero strumento a nostra disposizione. Siamo, sotto questo aspetto, eredi che non sanno parlare, infanti, nepioi, dice il Vangelo. Eppure, proprio l'essere-eredi rappresenta per San Paolo il nostro "titolo" più alto: se siamo figli, siamo eredi (kleronòmoi), eredi di Dio, co-eredi di Cristo. Ma il figlio sa rivolgersi al padre, sa liberamente fare ritorno a lui – e allora soltanto eredita. Non si è "naturalmente" eredi, nessuna semplice nascita garantisce l'eredità – così come non conosciamo la nobiltà del linguaggio solo perché abbiamo ascoltato parlare la mamma. Erede sarà colui che riconosce in sé, come costitutivo del proprio sé, la relazione col padre, e cerca di esprimerla in tutta la sua tremenda difficoltà. Se è così, allora proprio l'erede sarà chi, "all'inizio", avverte la propria mancanza, la propria solitudine. Si fa erede soltanto colui che si scopre abbandonato. Hereslatino ha la stessa radice del greco kheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Può ereditare, dunque, solo chi si scopre orbus, orphanos (stessa radice del tedesco Erbe). Per essere eredi occorre saper attraversare tutto il lutto per la propria radicale mancanza. Così, per San Paolo, non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo – il che significa: attraverso la imitazione della sua Croce. Nulla forse ci è più estraneo di questa idea di eredità. Per quanto essa possa essere balenata nell'Umanesimo più filosoficamente e teologicamente audace, i grandi figli della modernità non si riconoscono più come veri eredi. L'eroico idealismo della nuova scienza e della nuova filosofia è dominato da homines novi, dall'idea di "uomo nuovo", che si infutura da sé, in base a ciò che egli stesso ha scelto di essere. L'"uomo nuovo" è un orfano felice. L'eredità non ha per lui alcun interesse sostanziale. Illusioni, favole, saperi inutili, di cui liberarsi in ogni modo. Figli siamo costretti a nascere, ma il figlio sarà davvero tale, cioè liber, quando saprà rifiutare d'essere erede. Le grandi visioni del mondo storicistiche non contraddicono affatto, nell´essenza, questo formidabile paradigma "progressivo". Il loro richiamo alle "radici", al fondamento di ogni sapere nei linguaggi "ereditati", alla necessaria connessione degli eventi, è tutto dominato dal presupposto che la storia, ora, nel nostro tempo, riveli un suo senso e un suo fine. Possiamo allora, sì, dirci eredi – ma eredi che "superano" in sé il padre. Quest'ultimo è divenuto, per così dire, il combustibile della nostra storia. Non l'erede fa ritorno a lui, ma è lui a consumarsi come alimento della vita nuova dell'erede. L'erede è "pieno" del padre, orbo di nulla, ma, anzi, occhio onniveggente. Allora anche la domanda sulle "radici" assume questo "prepotente" aspetto: quale paternità abbiamo meglio assimilato, quale ci risulta più utile per "progredire", quale ha più efficacemente funzionato da combustibile? E se una non basta, mescoliamole un po'… Padri "a disposizione" sul mercato dei beni-valori-merci. Che di fronte al formidabile dispositivo teleologico che informa di sé questa visione della storia e questa idea di eredità risultino del tutto impotenti sedentarie erudizioni, la cura meramente conservatrice del "così fu", dovrebbe risultare ovvio. Il passato diviene davvero una gabbia che impedisce di fare storia non appena si riduce a semplice "participio passato". Qualsiasi religio del passato, in questo senso, nega l'essenza di quell'erede, che vuole fare ritorno, ma che alla luce di questo ritornare concepisce il proprio stesso procedere. Qui consiste il paradosso dell'autentico erede: erede nomina una dinamica, dal riconoscimento di un proprio, essenziale,mancare, attraverso la ricerca di una relazione che possa presentarsi altrettanto determinante per il proprio carattere, fino al riconoscersi in essa. Eredità non significa "caricarsi" di contenuti dati, presupposti, ma ricercare il proprio stesso nome nell'interrogazione del passato. Eredità non significa assumere dei "beni" da ciò che è morto, ma entrare in una relazione essenziale, non occasionale, non contingente, con chi ci appare portante passato. Ma una tale relazione potrà essere voluta soltanto da chi si sente, da solo, in quanto semplice "io", deserto, mancante, impotente a dire e a vedere.

La chiacchiera dominante concepisce la ricerca di eredità esattamente all'opposto. Come ricerca di fondamento e di assicurazione. Mille volte meglio, allora, il gesto prepotente di quei "padri" che pretendevano di potersi "decidere" da ogni passato. Poter essere eredi comporta, invece, provareangoscia per una condizione di sradicatezza o di abbandono, porsi, su un tale "fondamento", all'ascolto interrogante del "così fu", cogliere di esso quelle voci, quei simboli che ci siano riconoscibili come relazioni essenziali, costitutive della trama del nostro stesso esserci. Dinamica arrischiata quanto altre mai, poiché il passato può sempre inghiottire chi se ne cerca erede, e in particolare proprio colui che presume di potersene appropriare. Erede è nome di una relazione massimamente pericolosa, il cui senso è oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici, quasi a voler fare del figlio l'automatico erede, e idee sradicanti, se non deliranti, di libertà, e cioè di un essere liberi in quanto assolutamente non destinati alla ricerca di essere eredi, di un necessario rapporto con l'altro da sé. Non solo non cerchiamo di essere eredi, ma accogliamo soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che ci rassicurino ancor più nella nostra pretesa "autonomia" – quando qualsiasi eredità è "partecipabile" per definizione. Ma ciò che è dimenticato non per questo è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di "erede" in tutta la pregnanza che nella nostra lingua, ancora, nonostante tutto, si custodisce.»

M.Cacciari

Earth is doing well

martedì 3 maggio 2011

Vendetta, giustizia

La vendetta, legge della frontiera che l’America ha e l’Europa teme

"Justice has been done”, giustizia è fatta:rimarranno queste parole a simbolo dell’America che con determinazione feroce ha rincorso nel tempo, braccato sulla terra e infine giustiziato lo scellerato che aveva osato entrare nella sua casa e trucidare i suoi figli. E’ l’America dei “pale rider”, di quella cultura che crede che la giustizia sia un dovere e la vendetta gioia liberatoria. E’ la condizione che permette a una società aperta di sopravvivere e di rafforzarsi, è il riaffermare lo spirito della frontiera su cui riposa parte della grandezza americana e che l’Europa non ha mai conosciuto e per questo dileggia o teme. Il terrorismo è per definizione una questione simbolica: nessuno che abbia praticato o pratichi questa forma di deterrenza del debole nei confronti del forte, di ricatto della minoranza nei confronti della maggioranza, può ragionevolmente pensare che basti a piegare una società, a fiaccarne la volontà, a intaccare il suo comune sentire, a disarticolare l’organizzazione del potere, in una parola a vincere.

Non lo pensavano nemmeno gli anarchici che terrorizzarono le monarchie europee del secolo scorso: anche loro erano consapevoli che ucciso il re, ucciso lo zar, altri ne avrebbero preso il posto. L’assassinio politico dunque non è mai stato mezzo di trasformazione materiale della realtà ma soltanto allusione simbolica, attimo e immagine folgorante che mostra una liberazione possibile e subito scompare come un flash nella notte. L’apice, il simbolo più tragicamente luminoso della potenza di un movimento terroristico, contiene in sé anche le ragioni della sua debolezza e della sua inevitabile sconfitta, poco importa quanto sia lunga, sanguinosa, spettrale la coda. Una volta che ha messo il nemico in ginocchio e constatato che è capace di rialzarsi reagire e rafforzarsi, il terrorismo non sa fare altro che riproporsi in modo compulsivo e sempre più impotente. E’ stato così sotto tutti i cieli e in tutte le epoche, anche quando i fenomeni non sono nemmeno lontanamente comparabili. In Italia, per tutti gli anni Settanta, il partito armato colpisce nel mucchio dell’organizzazione statale, poliziotti, funzionari, magistrati, figure politiche di secondo piano, sindacalisti prima di dispiegare la massima potenza in via Fani, sequestrando Aldo Moro e uccidendo gli uomini della scorta. Prima dell’11 settembre 2001, Bin Laden ha già colpito più volte ma è con l’attacco alle due torri, nel cuore finanziario della superpotenza, che irrompe sulla scena internazionale e penetra nell’immaginario delle folle musulmane.

Due eventi catastrofici che prendono di sorpresa l’Italia di allora e gli Stati Uniti di oggi, anche se entrambi hanno avuto qualche sinistro segnale su cui riflettere. Le democrazie, per il modo stesso in cui funzionano, possono avere momenti di cecità. Nello sgomento però entrambi prendono consapevolezza del pericolo e reagiscono. Con questa differenza: che l’America ha cercato in modo forsennato l’immagine positiva, che richiudesse la parentesi qaidista e ne decretasse simbolicamente la fine. Ci ha messo dieci anni ma è riuscita nell’impresa. L’Italia no. Nella cultura della vecchia figlia della vecchia Europa non c’è la chiusura dei conti, non c’è la determinazione a punire in modo esemplare: l’Italia un po’ punisce, un po’ sorveglia, un po’ perdona, un po’ dimentica. La fine della cosiddetta lotta armata endogena è in chiaroscuro, parole in eccesso e bolse di retorica che non assurgono perciò a valore di simbolo e non restano nella memoria. Le immagini sono confuse, sovrapposte, non hanno il nitore sinistro di quelle che illustrano la fase montante del terrorismo, l’autonomo che con il volto coperto dal passamontagna impugna la pistola a braccia tese, solo, in una strada di Roma, quella via Fani o della R4 in via Caetani dove fu ritrovato il corpo di Moro.

Non ci sono immagini altrettanto forti che scandiscono la fine del terrorismo. Quando le teste di cuoio del generale Dalla Chiesa fanno irruzione in un appartamento di via Fracchia, a Genova, e crivellano di colpi nel sonno cinque brigatisti, azione premeditata e spietata ma politicamente intelligente, la scena rimane inaccessibile a giornalisti e fotografi per molte settimane: l’Italia che decide di “terrorizzare i terroristi” vuole che tutti sappiano ma che nessuno veda. Possiamo immaginare invece cosa l’America avrebbe saputo costruire attorno a un simile successo della forza legittima, come avrebbe saputo trasformare un’esibizione spudorata in riaffermazione di sé, in simbolo potente cioè in storia, come le foto del Marshall in bella posa con il cadavere del fuorilegge ai piedi, come Dillinger riverso sul selciato, senza nemmeno la pietà del lenzuolo bianco. Sappiamo anche che l’America sa affrontare il clima di paura e non teme rappresaglie e ritorsioni: anzi, il pericolo la rende più determinata a chiamare le cose con il loro nome, nemici i nemici, tortura la tortura ed esecuzione un’esecuzione. Se l’Italia del tempo avesse voluto fare dei morti di via Fracchia il simbolo della propria forza, possiamo solo immaginare come avrebbero reagito tanti intellettuali, la sinistra da centro storico, i moralisti al tartufo bianco: spettacolo inverecondo, nauseante. Per questo non c’è un’immagine che chiuda davvero i cosiddetti anni di piombo, un simbolo che scoraggi sprovveduti imitatori, un’immagine che ci faccia dire ebbene sì, questi siamo noi, paese civile, tollerante ma feroce nella difesa di alcuni principi. Per questo quella stagione luttuosa è arrivata fino agli albori del millennio e sembra che covi ancora sotto la cenere, per questo sembra che il passato risucchi indietro il presente. Per questo si gioca con le parole, missione armata sì ma umanitaria, un po’ di guerra ma non del tutto, viva la piazza araba che chiede democrazia e non fondamentalismi. Per questo applaudiamo sempre in modo tiepido e con riserva mentale i successi dell’alleato potente, proprio come fanno i francesi. Bravi sì, ma dai, in fondo quel Bin Laden non contava più nulla, era politicamente moribondo. Per questo l’hanno venduto e chissà poi chi l’avrà venduto.

L.Pace

mercoledì 27 aprile 2011

venerdì 11 marzo 2011

mercoledì 2 marzo 2011

sabato 19 febbraio 2011

martedì 15 febbraio 2011

venerdì 11 febbraio 2011

Ausmerzen

"Vite indegne di essere vissute". E' molto di più di una riflessione commossa e documentata sull'eugenetica nazista: è un pugno nello stomaco e uno schiaffo alla coscienza a tutti noi brava gente progressista che ragioniamo per categorie storiche e morali mentre ci sfugge che il "Male assoluto" nacque (nasce) da tanti beni relativi, convinti o indifferenti. Il male ha bisogno di gambe, e il grande merito di Paolini è ricordarci che le gambe possono essere quelle benintenzionate di ciascuno di noi.