«Subisce il termine "erede" la stessa sorte di tanti altri preziosi "nomi", che la chiacchiera quotidiana consuma e dissipa. Si fanno merci anch'essi, il cui valore è relativo esclusivamente all'utilità che se ne ricava. Siamo eredi che ignorano l'essenza più nobile della nostra eredità: il linguaggio – e lo massacriamo come fosse un mero strumento a nostra disposizione. Siamo, sotto questo aspetto, eredi che non sanno parlare, infanti, nepioi, dice il Vangelo. Eppure, proprio l'essere-eredi rappresenta per San Paolo il nostro "titolo" più alto: se siamo figli, siamo eredi (kleronòmoi), eredi di Dio, co-eredi di Cristo. Ma il figlio sa rivolgersi al padre, sa liberamente fare ritorno a lui – e allora soltanto eredita. Non si è "naturalmente" eredi, nessuna semplice nascita garantisce l'eredità – così come non conosciamo la nobiltà del linguaggio solo perché abbiamo ascoltato parlare la mamma. Erede sarà colui che riconosce in sé, come costitutivo del proprio sé, la relazione col padre, e cerca di esprimerla in tutta la sua tremenda difficoltà. Se è così, allora proprio l'erede sarà chi, "all'inizio", avverte la propria mancanza, la propria solitudine. Si fa erede soltanto colui che si scopre abbandonato. Hereslatino ha la stessa radice del greco kheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Può ereditare, dunque, solo chi si scopre orbus, orphanos (stessa radice del tedesco Erbe). Per essere eredi occorre saper attraversare tutto il lutto per la propria radicale mancanza. Così, per San Paolo, non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo – il che significa: attraverso la imitazione della sua Croce. Nulla forse ci è più estraneo di questa idea di eredità. Per quanto essa possa essere balenata nell'Umanesimo più filosoficamente e teologicamente audace, i grandi figli della modernità non si riconoscono più come veri eredi. L'eroico idealismo della nuova scienza e della nuova filosofia è dominato da homines novi, dall'idea di "uomo nuovo", che si infutura da sé, in base a ciò che egli stesso ha scelto di essere. L'"uomo nuovo" è un orfano felice. L'eredità non ha per lui alcun interesse sostanziale. Illusioni, favole, saperi inutili, di cui liberarsi in ogni modo. Figli siamo costretti a nascere, ma il figlio sarà davvero tale, cioè liber, quando saprà rifiutare d'essere erede. Le grandi visioni del mondo storicistiche non contraddicono affatto, nell´essenza, questo formidabile paradigma "progressivo". Il loro richiamo alle "radici", al fondamento di ogni sapere nei linguaggi "ereditati", alla necessaria connessione degli eventi, è tutto dominato dal presupposto che la storia, ora, nel nostro tempo, riveli un suo senso e un suo fine. Possiamo allora, sì, dirci eredi – ma eredi che "superano" in sé il padre. Quest'ultimo è divenuto, per così dire, il combustibile della nostra storia. Non l'erede fa ritorno a lui, ma è lui a consumarsi come alimento della vita nuova dell'erede. L'erede è "pieno" del padre, orbo di nulla, ma, anzi, occhio onniveggente. Allora anche la domanda sulle "radici" assume questo "prepotente" aspetto: quale paternità abbiamo meglio assimilato, quale ci risulta più utile per "progredire", quale ha più efficacemente funzionato da combustibile? E se una non basta, mescoliamole un po'… Padri "a disposizione" sul mercato dei beni-valori-merci. Che di fronte al formidabile dispositivo teleologico che informa di sé questa visione della storia e questa idea di eredità risultino del tutto impotenti sedentarie erudizioni, la cura meramente conservatrice del "così fu", dovrebbe risultare ovvio. Il passato diviene davvero una gabbia che impedisce di fare storia non appena si riduce a semplice "participio passato". Qualsiasi religio del passato, in questo senso, nega l'essenza di quell'erede, che vuole fare ritorno, ma che alla luce di questo ritornare concepisce il proprio stesso procedere. Qui consiste il paradosso dell'autentico erede: erede nomina una dinamica, dal riconoscimento di un proprio, essenziale,mancare, attraverso la ricerca di una relazione che possa presentarsi altrettanto determinante per il proprio carattere, fino al riconoscersi in essa. Eredità non significa "caricarsi" di contenuti dati, presupposti, ma ricercare il proprio stesso nome nell'interrogazione del passato. Eredità non significa assumere dei "beni" da ciò che è morto, ma entrare in una relazione essenziale, non occasionale, non contingente, con chi ci appare portante passato. Ma una tale relazione potrà essere voluta soltanto da chi si sente, da solo, in quanto semplice "io", deserto, mancante, impotente a dire e a vedere.
La chiacchiera dominante concepisce la ricerca di eredità esattamente all'opposto. Come ricerca di fondamento e di assicurazione. Mille volte meglio, allora, il gesto prepotente di quei "padri" che pretendevano di potersi "decidere" da ogni passato. Poter essere eredi comporta, invece, provareangoscia per una condizione di sradicatezza o di abbandono, porsi, su un tale "fondamento", all'ascolto interrogante del "così fu", cogliere di esso quelle voci, quei simboli che ci siano riconoscibili come relazioni essenziali, costitutive della trama del nostro stesso esserci. Dinamica arrischiata quanto altre mai, poiché il passato può sempre inghiottire chi se ne cerca erede, e in particolare proprio colui che presume di potersene appropriare. Erede è nome di una relazione massimamente pericolosa, il cui senso è oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici, quasi a voler fare del figlio l'automatico erede, e idee sradicanti, se non deliranti, di libertà, e cioè di un essere liberi in quanto assolutamente non destinati alla ricerca di essere eredi, di un necessario rapporto con l'altro da sé. Non solo non cerchiamo di essere eredi, ma accogliamo soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che ci rassicurino ancor più nella nostra pretesa "autonomia" – quando qualsiasi eredità è "partecipabile" per definizione. Ma ciò che è dimenticato non per questo è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di "erede" in tutta la pregnanza che nella nostra lingua, ancora, nonostante tutto, si custodisce.»
M.Cacciari
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