martedì 30 novembre 2010

Giavazzi su Gelmini

«Del valore dei laureati unico giudice è il cliente; questi sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all'ingegnere, e libero di fare meno di ambedue se i loro servigi non gli paiano di valore uguale alle tariffe scritte in decreti che creano solo monopoli e privilegi». (Luigi Einaudi, La libertà della scuola, 1953).
Il ministro Gelmini non ha il coraggio di Luigi Einaudi, non ha proposto di abolire il valore legale dei titoli di studio. Né la sua legge fa cadere il vincolo che impedisce alle università di determinare liberamente le proprie rette, neppure se le maggiori entrate fossero interamente devolute al finanziamento di borse di studio, cioè ad «avvicinare i punti di partenza» (Einaudi, Lezioni di politica sociale, 1944). Né ha avuto il coraggio di separare medicina dalle altre facoltà, creando istituti simili a ciò che sono i politecnici per la facoltà di ingegneria. Perché a quella separazione si oppongono con forza i medici che grazie al loro numero oggi dominano le università e riescono a trasferire su altre facoltà i loro costi.
Ma chi, nella maggioranza o nell'opposizione, con la sola eccezione del Partito Radicale, oggi appoggerebbe queste tre proposte? La realtà è che la legge Gelmini è il meglio che oggi si possa ottenere data la cultura della nostra classe politica.
Il risultato, nonostante tutto, non è poca cosa. La legge abolisce i concorsi, prima fonte di corruzione delle nostre università. Crea una nuova figura di giovani docenti «in prova per sei anni», e confermati professori solo se in quegli anni raggiungano risultati positivi nell'insegnamento e nella ricerca. Chi grida allo scandalo sostenendo che questo significa accentuare la «precarizzazione» dell'università dimostra di non conoscere come funzionano le università nel resto del mondo. Peggio: pone una pietra tombale sul futuro di molti giovani, il cui posto potrebbe essere occupato per quarant'anni da una persona che si è dimostrata inadatta alla ricerca.
«Non si fanno le nozze con i fichi secchi», è la critica più diffusa. Nel 2007-08 il finanziamento dello Stato alle università era di 7 miliardi l'anno. Il ministro dell'Economia lo aveva ridotto, per il 2011, di un miliardo. Poi, di fronte alla mobilitazione di studenti, ricercatori, opinione pubblica e alle proteste del ministro Gelmini, Tremonti ha dovuto fare un passo indietro: i fondi sono 7,2 miliardi nel 2010, 6,9 nel 2011, gli stessi di tre anni fa. «La legge tradisce i giovani che oggi lavorano nell'università, non dando loro alcuna prospettiva». Purtroppo ne dà fin troppe. Per ogni dieci nuovi posti che si apriranno, solo due sono riservati a giovani ricercatori che nell'università non hanno ancora avuto la fortuna di entrare: gli altri sono destinati a promozioni di chi già c'è.
La legge innova la governance delle università: limita l'autoreferenzialità dei professori prevedendo la presenza di non accademici nei consigli di amministrazione (seppure il ministro non abbia avuto la forza di accentuare la «terzietà» del cda impedendo che il rettore presieda, al tempo stesso, l'ateneo e il suo cda). Per la prima volta prevede che i fondi pubblici alle università siano modulati in funzione dei risultati.
La valutazione è l'unico modo per non sprecare risorse, per consentirci di risalire nelle graduatorie mondiali e fornire agli studenti un'istruzione migliore. Per questo l'Anvur, l'Agenzia per la valutazione degli atenei, è il vero perno della riforma. Purtroppo il ministro Mussi, che nel precedente governo la creò, ne scrisse un regolamento incoerente con la legge. Fu bocciato dal Consiglio di Stato e ha dovuto essere riscritto da zero con il risultato che l'Anvur parte soltanto ora.
La legge però non deve essere approvata ad ogni costo. Agli articoli ancora da discutere sono opposti (dall'opposizione, ma anche dalla Lega) emendamenti che la snaturerebbero. Uno alquanto bizzarro, dell'Udc, abroga il Comitato dei garanti per la ricerca, introdotto su richiesta del Gruppo 2003, i trenta ricercatori italiani i cui lavori hanno ottenuto il maggior numero di citazioni al mondo. La scorsa settimana Fli ha proposto che i 18 milioni che la legge finanziaria destina ad aumenti di stipendio per chi nell'università già c'è non siano riservati ai giovani, ma estesi a tutti. Così quei 18 milioni si sarebbero tradotti in venti euro al mese in più per tutti, anziché quaranta al mese per i giovani. Fortunatamente quell'emendamento non è passato. Ma altri sono in agguato, tra cui alcuni che introducono ope legis di vario tipo. Se passassero, meglio ritirare la legge.
Il Pd ha annunciato che voterà contro. Davvero Bersani pensa che se vincesse le elezioni riuscirebbe a far approvare una legge migliore? Migliore forse per chi nell'università ha avuto la fortuna di riuscire a entrare. Dubito per chi ne è fuori nonostante spesso nella ricerca abbia ottenuto risultati più significativi di chi è dentro.

lunedì 29 novembre 2010

Lutto comico

Lotta demenziale

B. is vain, reckless and ineffective. I am vainglorious, fat and inelegant.

Lutto demenziale

giovedì 25 novembre 2010

Debito pubblico: storia vecchia, pericolo nuovo

La FAZ, uno dei rari quotidiani conservatori tedeschi, autorevole ed equilibrato, riporta oggi in prima pagina economica nell'articolo "L'Italia si avvicina al baratro" dati economici conosciuti: debito pubblico più alto d'Europa che supererà quest'anno la soglia del 118% del Pil, crescita del debito stesso al ritmo del 3% annuo contro l'1% di crescita economica, situazione politica incerta, un dopoguerra disgraziato di politica economica miope, timorosa delle riforme impopolari e tutta intenta al mantenimento dei soliti privilegi delle caste.
Nonostante l'ancora buona situazione del debito privato, l'occupazione che ha tenuto, le banche che hanno retto e il famoso risparmio delle famiglie (che però risparmiano sempre meno) l'abisso si avvicina. L'Italia, continua l'articolo, senza provvedimenti economici seri e lungimiranti sarà un pericolo per l'euro, come e più di Grecia e Irlanda. Saremo i terzi dei Paesi PIIGS?
Tutto noto, ok, come le seguenti considerazioni: in Germania la stampa parla della noiosa economia, in Italia di telefonate di vecchi, puttane, tetti, case, feste, messe cantate sulla virtù civile; se il governo dovrebbe (avrebbe dovuto, visto che ormai non c'è più la maggioranza) intraprendere scelte anche impopolari rapide ed efficaci, l'opposizione avrebbe potuto (potrebbe, ma non lo fa perchè non conviene a nessuno) denunciare la gravità della crisi, proponendo soluzioni almeno verosimili. Invece saliamo sui tetti, difendiamo caste, strumentalizziamo categorie, discutiamo di legalità, terzi poli, terzi mondi, guardiamo le cime dei monti (Montecitorio, Montecarlo, Montezemolo) e non ci accorgiamo del precipizio.

lunedì 22 novembre 2010

Cercasi cantante (Virginiana Miller)

Mini mini mini

Risorgimento poco epico

E se non ci fosse un’epica del Risorgimento?
Se davvero, malgrado l’innegabile grandezza di alcuni dei suoi protagonisti e i tanti episodi di eroismo, malgrado una partecipazione popolare che certo non fu massiccia ma senz’altro più importante di quanto comunemente non si dica, l’evento cruciale della nostra storia non fosse mai riuscito in centocinquanta anni a farsi mito? Se davvero non ci fossero mai state parole immediate, semplici, comprensibili da tutti e per questo dirompenti. Né eventi limpidi in grado di trasmettere intatte le ragioni profonde del comune sentire.
Dicono che è andata così perché siamo un popolo stanco, dominus del mondo per settecento anni, che è tornato ad essere grande a sprazzi, nella fioritura dei comuni, nell’orgogliosa solitudine delle sue città mondo. Dicono che è andata così perché nazione di risulta, arrivata ultima nel consesso quando gli stati nazione in Europa andavano verso l’agonia e quella feroce follia che avrebbe provocato centinaia di milioni di morti. Dicono che è colpa di una casa reale incolta e pavida. Di una dittatura che ha rinnegato la sua vera anima e stravolti i segni e i simboli della Roma antica. Della chiesa più potente che mai, dopo il Concordato. Dicono infine che è colpa di quelli che sono venuti dopo. Della resistenza che nella retorica del compimento ha accentuato le divisioni che c’erano, della destra che non sempre ha messo la patria su tutto, della sinistra che diffidava persino del nome e nella sua utopia della liberazione ha guardato all’est. Della scuola che da tempo non funziona e non trasmette né i valori né la cultura. Del trionfo inevitabile del dio denaro, della globalizzazione. Tutto vero, forse. Ma se fosse esistito un epos del Risorgimento, un limpido momento del mito, avrebbe resistito a tutto. Sarebbe arrivato a noi con forza solare. Non ci avrebbe obbligato ogni volta a frugare nel passato. L.Pace

domenica 21 novembre 2010

I concorsi esterni di Dell'Utri

La verità a volte è più complicata (ovvero più semplice).

Non c'è niente che non sapessimo già, niente che per esempio non fosse già contenuto nella requisitoria di primo grado scritta e pronunciata dal pm Antonio Ingroia e accolta nella sua sostanza per la seconda volta, appunto in Appello: Marcello Dell'Utri si incaricò e fu incaricato di proteggere Silvio Berlusconi - lui consenziente - in anni in cui la criminalità e la mafia prendevano di mira soprattutto imprenditori come lui. Fatte le debite proporzioni, è come scoprire che un esercente pagava il pizzo per proteggere la sua attività - soprattutto la sua famiglia - e che un suo dipendente, palermitano e delegato a «risolvere problemi», fece a suo tempo tutto ciò che ritenne necessario per risolverli. Il punto è che pagare il pizzo non è reato, anche se certa giurisprudenza vorrebbe che lo fosse: ma andare a parlare con quelli che il pizzo lo pretendono, e che ti hanno già fatto saltare la saracinesca del negozio, in Italia - e solo in Italia - configura il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, anche detto «appoggio esterno» perché appunto presuppone una connivenza coi tuoi estorsori. Certo, i giudici palermitani vanno oltre e parlano addirittura di «sodalizio mafioso», ma in pratica in reato di Dell'Utri - non di Berlusconi: il quale, non fosse chiaro, del reato è letteralmente vittima - consistebbe semplicemente nell'aver riagganciato un vecchio amico in odore di mafia, Gaetano Cinà, affinché le sue conoscenze e parentele consentissero di arrivare ai grossi calibri mafiosi per apprendere, dai medesimi, le condizioni che consentissero la pax imprenditoriale e familiare di Berlusconi.
Il giudice estensore della sentenza d'Appello che ha condannato Dell'Utri a 7 anni, Salvatore Barresi, è tutto fuorché un invasato con la verità in tasca: ha scritto 612 pagine che appaiono certo irrigidite dalla necessità di fingere di averne una, di verità in tasca, ma la sua storia sta in piedi. E' molto schematica - troppo - ma un suo senso ce l'ha, anche se le sentenze non dovrebbero essere né schematiche né basarsi solo sul buon senso. La storia è quella di un imprenditore indubbiamente emergente (ma non così ricco, perché reinvestiva ed era eternamente indebitato) che in qualche maniera doveva rapportarsi con le legittime paure degli imprenditori italiani negli anni Settanta: il timore dei sequestri, e in misura minore, qualche anno dopo, la necessità di oliare qualche ingranaggio per fare affari soprattutto in Sicilia, tipo piazzare dei nuovi ripetitori televisivi o evitare che le saracinesche delle sua Standa saltassero in aria. Qui entra in gioco Marcello Dell'Utri, personaggio perfettamente scisso tra la sua seconda vita da «uomo del Nord» e la sua prima giovinezza da palermitano straclassico, ambiguo, sospeso in quella zona grigia che in Sicilia apparteneva a chiunque non fosse uno sbirro o non vivesse in convento. Dell'Utri allenava la Bagicalupo Calcio e tra i difensori c'era il figlio del semi-boss Gaetano Cinà, per dire, mentre un certo Vittorio Mangano vegliava sulla sicurezza della squadra: ogni confine era sfumato e nondimeno lo divenne il ruolo del «mediatore» dell'Utri, descritto schematicamente, appunto, come un berlusconiano premuroso che da una parte si faceva carico dei legittimi timori imprenditoriali di Berlusconi e dall'altra mestava con Gaetano Cinà e Vittorio Mangano, mafiosi di serie B che tuttavia ne conoscevano uno di serie A, Stefano Bontate. E qui si perpetuano, dicevamo, gli schematismi che il giudice estensore enuncia senza provarli per davvero.
Il paradigma della sentenza, fatto proprio da tutta la grande stampa, è più o meno questo: Berlusconi, tramite Dell'Utri, pagò un sacco di soldi alla mafia per almeno vent'anni, e, non bastasse, per meglio tutelarsi assunse anche Vittorio Mangano come fattore ad Arcore; una ciliegina sulla torta, quest’ultima, in un sodalizio che assicurasse a Berlusconi la pax mafiosa che ricercava. Ma chiunque conosca un minimo gli attori del caso, chiunque abbia studiato la storia e la personalità di Silvio Berlusconi - e magari abbia ascoltato qualche vecchia intercettazione telefonica - è pronto a rovesciare lo schema: di tutte queste «richieste di denaro sistematicamente subite negli anni», e di cotanta «intensa attività estorsiva» imperniata su «ingenti somme di denaro», in definitiva, non c'è traccia, così come gli affari di Berlusconi in Sicilia, all'epoca, non paiono così mastodontici da giustificare le preoccupazioni e gli esborsi descritti dai giudici.
L'unica cosa provata con precisione è quella che i giudici scambiano per ciliegina e che invece, forse, fu la torta: Vittorio Mangano. E' questa la «furbata» berlusconiana suggerita da Dell'Utri, e che i due, in un quadro molto più improvvisato e meno scientifico di quanto la sentenza prefiguri, pensarono forse che potesse bastare. L'assunzione di Mangano nel 1974 non era un «pagamento» alla mafia, ma doveva servire proprio a non pagarla in un quadro assolutamente improvvisato. Una soluzione autogestita ma chissà quanto sufficiente, considerando che Berlusconi negli anni Ottanta ritenne di dover spedire ugualmente i suoi figli all'estero: questo soprattutto dopo la morte di Stefano Bontade, nel 1981, che è sempre rimasto l'unico serio boss che Dell'Utri era in grado di sensibilizzare tramite Cinà e Mangano. Sparito lui, la politica di autotutela di Berlusconi proseguì probabilmente all'insegna del giorno per giorno: il che non impedì, per esempio, che Berlusconi davanti ai cancelli di Arcore si ritrovasse qualche bombetta di avvertimento. Una dinamica, questa, che mal si concilia con gli improbabili incontri che Berlusconi e Dell'Utri, stando ai magistrati, avrebbero avuto coi boss Bontate, Teresi e Di Carlo: roba che riposa sulla parola di pentiti che hanno rimembrato vagamente dei fatti di 36 anni fa. Morto Stefano Bontade, le scarne conoscenze para-mafiose di Dell'Utri - Cinà e Mangano - nulla avrebbero comunque potuto al cospetto di Totò Riina e dei suoi corleonesi. E' molto probabile che Dell'Utri non abbia neppure mai conosciuto Vito Ciancimino, l'ex sindaco di Palermo di provati legami mafiosi. E' anche per questo - per grande scorno del pm Antonio Ingroia e dei suoi addetti stampa - che i giudici non hanno dato il minimo credito alla tesi di una contiguità della mafia col Berlusconi politico: gli incontri di Dell'Utri con Vittorio Mangano nel novembre 1993, peraltro mai negati, non provano nulla se non una vecchia amicizia mai rinnegata; le testimonianze di Salvatore Spatuzza e di Massimo Ciancimino, poi, sono apparse non credibili e contraddittorie non solo ai giudici ma a qualsiasi persona dotata di un minimo di buona fede.
Come detto, la storia in sé regge: Berlusconi che si serve di Dell'Utri, Dell'Utri che si serve di Berlusconi e qualche mafioso perdente che si serve di entrambi: il tutto in un quadro di mafiosità di piccolo cabotaggio che perdura sinché arrivano i corleonesi cui interessa il mercato della droga e il far saltare mezzo Paese, mica i tralicci di Berlusconi. Da allora però la figura di Dell'Utri - non è chiaro se lui consenziente - è rimasta avvolta in un'aura di «intoccabilità» che ha contribuito ad attribuirgli ruoli fatali e conoscenze innominabili, questo sia in qualche ambiente para-mafioso che altrove.
Nello scenario anni Settanta e Ottanta che riguarda Dell'Utri, perciò, le espressioni «mediatore» e «specifico canale di collegamento» appaiono sopravvalutate: così come «garante di Cosa Nostra» per Vittorio Mangano appare forse eccessivo. Se davvero Dell'Utri fosse stato il «concorrente» mafioso descritto, e non solo un palermitano che sapeva come muoversi, allora avrebbe meritato direttamente l'accusa di associazionismo mafioso che il pm Antonio Ingroia, in primo grado, aveva dapprima pensato di imputargli. Ma lo scenario reale, e non quello drammatizzato dai giudici d'Appello, probabilmente non avrebbe neppure consentito di giustificare l'incredibile reato di «concorso esterno» che è stato affibbiato a Dell'Utri.
Insomma niente di nuovo: la notizia c'era già stata - quella della condanna in Appello, pur ridotta da 9 a 7 anni - e così pure l'altra notizia, quella più clamorosa, cioè che in Italia una «mediazione» del genere viene equivalsa a un appoggio alla mafia: al pari - giurisprudenza alla mano - di medici che abbiano curato mafiosi o di preti che li abbiano confessati. Fu Giovanni Falcone, il 17 luglio 1987, a firmare una delle prime sentenze che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa: ma, nei fatti, il giudice non si sognò mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi di reato. Ecco perché, in un suo libro scritto con Marcelle Padovani, appunto a proposito del 416 bis, Falcone vide lungo: «Non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare, ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta». Infatti. La definizione specifica del reato, dopo la strage di Capaci, è diventata indefinibile, creta nelle mani del magistrato: il 416 bis è stato imbracciato per cercar di sanzionare ogni presunto e opinabile collaborazionismo dell'amministrazione, dell'imprenditoria e delle professioni. E della politica, naturalmente. F.Facci

venerdì 19 novembre 2010

Que reste-t-il de nos amours?

Cantata oggi dal Cav. (la canta veramente tra l'altro) alla Mara.

Situazione a Palazzo

"Caro Cav. la giornata si fa amara / se va via anche la Mara // se rimane solo Bondi / è ormai chiaro che sprofondi // gioca ancora con La Russa / e la crisi non si smussa // ti presenti con Giovanardi / non pare un governo di gagliardi // ti sostieni con Capezzone / stai per prendere l'acquazzone // se t'attacchi a Frattini / ti restano solo da fare i bollettini // ti sostiene la Gelmini / ha fatto incazzare pure i ragazzini // ormai neanche il povero Letta / mette più una paroletta // qui urge una nipotina egiziana / o almeno una pischella coreana".

Vieni via con noi

Saviano intrappolato nel gioco buoni-cattivi dei macro-messaggi televisivi.

Poi un giorno ci spiegherai perché in pochi giorni hai gettato alle ortiche un lavoro di anni, caro Saviano. In questo Paese rimanere bipartisan è un'impresa colossale, il cretinismo bipolare reclama sempre nuove prede da spolpare e da scaraventare dall'altra parte della palizzata politica: e tu eri riuscito a sottrarti con sforzo evidente, avevi evitato di intrupparti in un certo gregge conformista e firmaiolo anche perché - ripetevi - la lotta alla mafia e alla camorra non è di destra né di sinistra.

L'obiettivo, in parte riuscitissimo, sembrava quello di innescare una rivolta nella coscienza civile: non quello di puntare il dito contro Paderno Dugnano e l'hinteland milanese; il tuo riferimento morale erano «I racconti di Kolyma», mica i consigli di Loris Mazzetti. Dev'esser stata dura vivere come un fuggiasco a soli 31 anni, senza una vita privata, senza intanto farsi blandire dalle sirene che secondo una tradizione tutta italiana dovevano regalarti alla sinistra e renderti nemico della destra, facce speculari di una stessa automatica idiozia. Sei stato uno dei pochi che hanno riconosciuto i successi del governo nella lotta alla camorra, sei giunto a giudicare Roberto Maroni come uno dei migliori ministri di sempre, hai detto che il Casertano in passato era rimasto praticamente ignorato dallo Stato, hai ammesso che il centrosinistra aveva responsabilità enormi nella collusione con le organizzazioni criminali: anche perché le due regioni con più comuni sciolti per mafia erano Campania e Calabria, e chi le aveva amministrate negli ultimi 12 anni? Anche per questo il centrosinistra campano ti aveva accusato di infangare la tua terra, che vita, Saviano: e tutto questo per che cosa?
Per spazzare via tutto e svenderlo alla più sgangherata delle grammatiche televisive: che non è roba tua, non ancora, e si è visto.

La tv non è leggere un libro a una platea più ampia: la tv è una somma di sentenze inappellabili senza approfondimento, senza distinguo e senza note a margine. Se in tv parli male di un uomo o un partito, di un solo partito, tu ce l'hai con quel partito, stop, e sei un nemico di quel partito, stop, e tutto il resto ti si rovescia addosso a cascata.
E non dire che non lo sapevi: l'avevamo già capito quando hai raccontato il linciaggio di Giovanni Falcone, sei stato attentissimo a dire e non dire, a omettere nomi e cognomi che hai evidentemente deciso di non inimicarti. Sei stato molto paraculo, Saviano: del resto il difficile era questo, era raccontare di un uomo che non piaceva a nessuno facendosi applaudire da tutti. Impossibile, da noi. Per piacere a una parte devi impiccarne un'altra, e a quanto pare in questi giorni hai fatto la tua scelta: lega e leghisti - devi aver pensato - sono sacrificabili. Col rischio, però, che tu possa sacrificare molto più di quanto abbia calcolato: perché forse non ti è chiaro, ma in questi giorni non sei dispiaciuto soltanto ai leghisti.

Sei dispiaciuto a tutti coloro che pensavano che non ti saresti intruppato nel politicamente corretto, a tutti coloro che sono rimasti sconcertati da certe tue uscite che non hai saputo frenare, ormai intrappolato nella figura - ora posso finalmente usarla, quest'espressione odiosa - del martire catodico. Forse hai perso la testa: la tv fa quest'effetto, capita. Paragonare le parole di Maroni a quelle del camorrista Sandokan è stata una stupidaggine siderale, Saviano, un riflesso da forcaiolismo becero e involuto, cose che ti aspetti da un De Magistris, da un demagogo da strapazzo.
E sarà un caso, ma anche tutto il resto, poi, è sembrato come inquinato dalle crescenti cazzatelle che cominciavano a sfuggirti: tipo che «le mafie scommettono sul federalismo», come ha detto a quelli de l'Espresso, una frase che non vuol dire niente, perché è come dire che le mafie scommettono sui soldi ovunque vadano: frase che però è sufficiente a sconfessare la politica di un'intera legislatura, di un'intera forza politica.


Che cosa stiamo scoprendo, Saviano? Che le mafie inseguono i soldi dove ci sono? Che corteggiano il potere ovunque sia? Il macro-messaggio televisivo, ora, è che il Nordest sta diventando come il Casertano, società civile compresa: credi che dal teleschermo sia passato qualcosa di diverso, magari di più approfondito di così? Il grosso del pubblico di prima serata non legge Gomorra, spesso non legge proprio: ma guarda il telegiornale, e il capo di Gomorra in compenso l'ha visto in manette. Questo mentre tu, su Repubblica, menzionavi e ringraziavi praticamente l'intera squadra mobile di Napoli fuorché Vittorio Pisani, l'uomo che teneva sotto braccio Antonio Iovine e lo trascinava in questura, lo stesso poliziotto che ritenne infondate le minacce della camorra contro di te: è questo il messaggio che è passato, sai? Sembra che non l'hai nominato apposta: che ti piglia, Saviano? Anche il tuo commento dopo l'arresto del boss «sorridente» è suonato inutilmente drammatico e improbabile: hai detto che voleva dire «in carcere ci vado a comandare, tutto questo era previsto, vi ho fatto un regalo perché tanto fuori restano i miei capitali». Ma certo, si è fatto beccare apposta: vivere a Casal di Principe o beccare l'ergastolo è la stessa cosa, anzi non vedeva l'ora.


Stai spaccando gli italiani anziché sensibilizzarli, Saviano, li stai confondendo anziché informarli, soprattutto li stai confermando nelle loro rinfrancanti divisioni tra buono e cattivo, destra e sinistra, amico e nemico, soprattutto fatti e parole. Ma ormai sei imprigionato nella parte. Qual è la prossima mossa, Saviano? Potrai finalmente lasciare Mondadori, ora? F.Facci

mercoledì 17 novembre 2010

Versi sporchi e disonesti

Quando il nascente sol l’aurora caccia,
le cime de’ monti paion d’oro,
E gli uccellj escon fuor da’ nidj loro
Perché la fame e ’l giorno gli minaccia,
Allhor vorrej haver nelle mie braccia
Il dolce ricco mio caro tesoro;
Perché ’l cazzo mi dà tanto martoro,
Ch’io non so s’io me ’l menj, o quel ch’io faccia.
Niccolo' Macchiavelli, 1563

martedì 16 novembre 2010

G meno 7

Per la prima volta è stato organizzato il summit del G meno 7, formato dai membri degli stati meno potenti al mondo. Si sono ritrovati per tre giorni al campeggio dell’idroscalo di Milano. Le delegazioni degli stati non si sono nemmeno salutate tra loro. Anzi, si sono offesi durante la cerimonia d’apertura. La cosa non è stata documentata perché non c’erano giornalisti e cineoperatori al seguito.
La delegazione meno numerosa era quella dei boscimani. Sono arrivati in due. Subito hanno litigato con i campesinos per chi doveva parcheggiare la roulotte in sosta vietata. Entrambe le delegazioni volevano prendere la multa dal comune di Peschiera Borromeo (Milano) per poi vantare crediti all’Onu. Il primo vertice a due è stato tra i beduini e il presidente della provincia di Saragozza. I beduini dicono che non c’è più acqua per i dromedari. Quello gli ha risposto: “Certo, è tutto regolare, altrimenti se ci fosse stata avreste usato i cavalli e non i dromedari”. Il delegato dei beduini si è offeso.
I masai invece non si sono lamentati, anzi hanno detto che prima c’era un caldo bestia verso le due di pomeriggio. Adesso nella savana si sta benino, in capanna e con il condizionatore a manetta (gentilmente offerto da Bob Dylan).
E infine la delegazione della Cordigliera delle Ande. Anche loro sono più contenti che il clima è cambiato. Intervento del delegato: “Le scimmie urlatrici sono diventate più educate; prima tiravano le banane dall’alto dei baobab ai turisti. Erano dispettose (come si evince dai cartoni animati degli anni Venti). Oggi è cambiato tutto, sempre a causa del global warming: sbadigliano tutto il giorno”.
Inutile ricordare che il vertice è fallito. Ci vediamo a Singapore nel 2018.

domenica 7 novembre 2010

Il Presidente o il Partito?

L'intervento più applaudito all'assemblea dei circoli del PD è stato questo del nuovo Serracchiano. Un bel commento (da sinistra, of course) è quello di Francesco Cundari.
Già, nell’intervento c'è una contraddizione tra la critica ai partiti personali e quella alle interviste “per distinguersi” dalla linea del partito.
E se è pericoloso un partito del Presidente (leggi del satrapo, del genio, del migliore), non meno pericolosa è l’idea del Partito-Dio, del Partito che ha sempre ragione.
Nel primo caso si giustifica la personalizzazione con il carisma, la popolarità e il consenso; nel secondo con le procedure democratiche interne. Vedo fantasmi di adorazioni pagane che hanno fatto qualche danno il secolo scorso.

sabato 6 novembre 2010

Cascar giuppe le scale

E questo il commento della vicina di casa, autentica lezione di sassoferratese:
Dice è morta Pina, è cascata giuppe le scale è morta, dice come devo fa. Digo cuae da fa, chiama là l'ospedale e sente quello che te dice... la crocerossa, que ne so. E poe ho visto che n'è rivado nessuno, digo se vede che nn'ha chiamada la crocerossa. Però io non me so levata da lì casa mia, so stata, nonne' che me so ffacciata a vede. Digo vo a vede che e' morta, capirai 'n po' so sola c'ho pure paura.

Uccidere il quattro di quadri

A volte mi succede che qualcuno mi voglia far giocare a carte. Io odio giocare a carte. Giocare a carte mi provoca un’ansia, un tremore che non capisco: sintomi di un malessere che non so da dove arrivi, malessere che è aggravato dalla consapevolezza dell’inutilità assoluta di quel che stai facendo, malessere che è aggravato dalla consapevolezza della totale abiezione del gioco delle carte, un gioco che non fa bene a nessuno, un gioco che porta solo odio per quei re, e quelle regine, e quei fanti assassini, per quei jolly, mostri notturni degni dei peggiori incubi, e per quelle carte da nulla, quei tre, quei cinque, quei sette di fiori.
Io lo giuro, se mi capita ancora in mano un quattro di quadri, io lo ammazzo.

giovedì 4 novembre 2010

mercoledì 3 novembre 2010

Ruby Ruby Ruby

Li miracoli de li quadrini

Chi ha quadrini è una cima de dottore,
senza manco sapé scrive né lègge:
pò sparà indove vò ròtti e scorregge,
e gnisuno da lui sente er rimore.
Pò avè in culo li giudici, la lègge,
l'occhio der monno, la vertù, e l'onore:
pò fà magaraddio, lo sgrassatore,
e 'r Governo sta zitto e lo protegge.
Pò ingravidà ogni donna a-la-sicura,
perché er Papa a l'udienza der giardino
je benedice poi panza e creatura.
Nun c'è soverchiaria, nun c'è ripicco
che nun passi coll'arma der zecchino.
Viva la faccia de quann'-uno-è-ricco.
G.G. Belli, 11 marzo 1834