La verità a volte è più complicata (ovvero più semplice).
Non c'è niente che non sapessimo già, niente che per esempio non fosse già contenuto nella requisitoria di primo grado scritta e pronunciata dal pm Antonio Ingroia e accolta nella sua sostanza per la seconda volta, appunto in Appello: Marcello Dell'Utri si incaricò e fu incaricato di proteggere Silvio Berlusconi - lui consenziente - in anni in cui la criminalità e la mafia prendevano di mira soprattutto imprenditori come lui. Fatte le debite proporzioni, è come scoprire che un esercente pagava il pizzo per proteggere la sua attività - soprattutto la sua famiglia - e che un suo dipendente, palermitano e delegato a «risolvere problemi», fece a suo tempo tutto ciò che ritenne necessario per risolverli. Il punto è che pagare il pizzo non è reato, anche se certa giurisprudenza vorrebbe che lo fosse: ma andare a parlare con quelli che il pizzo lo pretendono, e che ti hanno già fatto saltare la saracinesca del negozio, in Italia - e solo in Italia - configura il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, anche detto «appoggio esterno» perché appunto presuppone una connivenza coi tuoi estorsori. Certo, i giudici palermitani vanno oltre e parlano addirittura di «sodalizio mafioso», ma in pratica in reato di Dell'Utri - non di Berlusconi: il quale, non fosse chiaro, del reato è letteralmente vittima - consistebbe semplicemente nell'aver riagganciato un vecchio amico in odore di mafia, Gaetano Cinà, affinché le sue conoscenze e parentele consentissero di arrivare ai grossi calibri mafiosi per apprendere, dai medesimi, le condizioni che consentissero la pax imprenditoriale e familiare di Berlusconi.
Il giudice estensore della sentenza d'Appello che ha condannato Dell'Utri a 7 anni, Salvatore Barresi, è tutto fuorché un invasato con la verità in tasca: ha scritto 612 pagine che appaiono certo irrigidite dalla necessità di fingere di averne una, di verità in tasca, ma la sua storia sta in piedi. E' molto schematica - troppo - ma un suo senso ce l'ha, anche se le sentenze non dovrebbero essere né schematiche né basarsi solo sul buon senso. La storia è quella di un imprenditore indubbiamente emergente (ma non così ricco, perché reinvestiva ed era eternamente indebitato) che in qualche maniera doveva rapportarsi con le legittime paure degli imprenditori italiani negli anni Settanta: il timore dei sequestri, e in misura minore, qualche anno dopo, la necessità di oliare qualche ingranaggio per fare affari soprattutto in Sicilia, tipo piazzare dei nuovi ripetitori televisivi o evitare che le saracinesche delle sua Standa saltassero in aria. Qui entra in gioco Marcello Dell'Utri, personaggio perfettamente scisso tra la sua seconda vita da «uomo del Nord» e la sua prima giovinezza da palermitano straclassico, ambiguo, sospeso in quella zona grigia che in Sicilia apparteneva a chiunque non fosse uno sbirro o non vivesse in convento. Dell'Utri allenava la Bagicalupo Calcio e tra i difensori c'era il figlio del semi-boss Gaetano Cinà, per dire, mentre un certo Vittorio Mangano vegliava sulla sicurezza della squadra: ogni confine era sfumato e nondimeno lo divenne il ruolo del «mediatore» dell'Utri, descritto schematicamente, appunto, come un berlusconiano premuroso che da una parte si faceva carico dei legittimi timori imprenditoriali di Berlusconi e dall'altra mestava con Gaetano Cinà e Vittorio Mangano, mafiosi di serie B che tuttavia ne conoscevano uno di serie A, Stefano Bontate. E qui si perpetuano, dicevamo, gli schematismi che il giudice estensore enuncia senza provarli per davvero.
Il paradigma della sentenza, fatto proprio da tutta la grande stampa, è più o meno questo: Berlusconi, tramite Dell'Utri, pagò un sacco di soldi alla mafia per almeno vent'anni, e, non bastasse, per meglio tutelarsi assunse anche Vittorio Mangano come fattore ad Arcore; una ciliegina sulla torta, quest’ultima, in un sodalizio che assicurasse a Berlusconi la pax mafiosa che ricercava. Ma chiunque conosca un minimo gli attori del caso, chiunque abbia studiato la storia e la personalità di Silvio Berlusconi - e magari abbia ascoltato qualche vecchia intercettazione telefonica - è pronto a rovesciare lo schema: di tutte queste «richieste di denaro sistematicamente subite negli anni», e di cotanta «intensa attività estorsiva» imperniata su «ingenti somme di denaro», in definitiva, non c'è traccia, così come gli affari di Berlusconi in Sicilia, all'epoca, non paiono così mastodontici da giustificare le preoccupazioni e gli esborsi descritti dai giudici.
L'unica cosa provata con precisione è quella che i giudici scambiano per ciliegina e che invece, forse, fu la torta: Vittorio Mangano. E' questa la «furbata» berlusconiana suggerita da Dell'Utri, e che i due, in un quadro molto più improvvisato e meno scientifico di quanto la sentenza prefiguri, pensarono forse che potesse bastare. L'assunzione di Mangano nel 1974 non era un «pagamento» alla mafia, ma doveva servire proprio a non pagarla in un quadro assolutamente improvvisato. Una soluzione autogestita ma chissà quanto sufficiente, considerando che Berlusconi negli anni Ottanta ritenne di dover spedire ugualmente i suoi figli all'estero: questo soprattutto dopo la morte di Stefano Bontade, nel 1981, che è sempre rimasto l'unico serio boss che Dell'Utri era in grado di sensibilizzare tramite Cinà e Mangano. Sparito lui, la politica di autotutela di Berlusconi proseguì probabilmente all'insegna del giorno per giorno: il che non impedì, per esempio, che Berlusconi davanti ai cancelli di Arcore si ritrovasse qualche bombetta di avvertimento. Una dinamica, questa, che mal si concilia con gli improbabili incontri che Berlusconi e Dell'Utri, stando ai magistrati, avrebbero avuto coi boss Bontate, Teresi e Di Carlo: roba che riposa sulla parola di pentiti che hanno rimembrato vagamente dei fatti di 36 anni fa. Morto Stefano Bontade, le scarne conoscenze para-mafiose di Dell'Utri - Cinà e Mangano - nulla avrebbero comunque potuto al cospetto di Totò Riina e dei suoi corleonesi. E' molto probabile che Dell'Utri non abbia neppure mai conosciuto Vito Ciancimino, l'ex sindaco di Palermo di provati legami mafiosi. E' anche per questo - per grande scorno del pm Antonio Ingroia e dei suoi addetti stampa - che i giudici non hanno dato il minimo credito alla tesi di una contiguità della mafia col Berlusconi politico: gli incontri di Dell'Utri con Vittorio Mangano nel novembre 1993, peraltro mai negati, non provano nulla se non una vecchia amicizia mai rinnegata; le testimonianze di Salvatore Spatuzza e di Massimo Ciancimino, poi, sono apparse non credibili e contraddittorie non solo ai giudici ma a qualsiasi persona dotata di un minimo di buona fede.
Come detto, la storia in sé regge: Berlusconi che si serve di Dell'Utri, Dell'Utri che si serve di Berlusconi e qualche mafioso perdente che si serve di entrambi: il tutto in un quadro di mafiosità di piccolo cabotaggio che perdura sinché arrivano i corleonesi cui interessa il mercato della droga e il far saltare mezzo Paese, mica i tralicci di Berlusconi. Da allora però la figura di Dell'Utri - non è chiaro se lui consenziente - è rimasta avvolta in un'aura di «intoccabilità» che ha contribuito ad attribuirgli ruoli fatali e conoscenze innominabili, questo sia in qualche ambiente para-mafioso che altrove.
Nello scenario anni Settanta e Ottanta che riguarda Dell'Utri, perciò, le espressioni «mediatore» e «specifico canale di collegamento» appaiono sopravvalutate: così come «garante di Cosa Nostra» per Vittorio Mangano appare forse eccessivo. Se davvero Dell'Utri fosse stato il «concorrente» mafioso descritto, e non solo un palermitano che sapeva come muoversi, allora avrebbe meritato direttamente l'accusa di associazionismo mafioso che il pm Antonio Ingroia, in primo grado, aveva dapprima pensato di imputargli. Ma lo scenario reale, e non quello drammatizzato dai giudici d'Appello, probabilmente non avrebbe neppure consentito di giustificare l'incredibile reato di «concorso esterno» che è stato affibbiato a Dell'Utri.
Insomma niente di nuovo: la notizia c'era già stata - quella della condanna in Appello, pur ridotta da 9 a 7 anni - e così pure l'altra notizia, quella più clamorosa, cioè che in Italia una «mediazione» del genere viene equivalsa a un appoggio alla mafia: al pari - giurisprudenza alla mano - di medici che abbiano curato mafiosi o di preti che li abbiano confessati. Fu Giovanni Falcone, il 17 luglio 1987, a firmare una delle prime sentenze che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa: ma, nei fatti, il giudice non si sognò mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi di reato. Ecco perché, in un suo libro scritto con Marcelle Padovani, appunto a proposito del 416 bis, Falcone vide lungo: «Non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare, ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta». Infatti. La definizione specifica del reato, dopo la strage di Capaci, è diventata indefinibile, creta nelle mani del magistrato: il 416 bis è stato imbracciato per cercar di sanzionare ogni presunto e opinabile collaborazionismo dell'amministrazione, dell'imprenditoria e delle professioni. E della politica, naturalmente. F.Facci
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