martedì 4 agosto 2009

Dentro di me / 2

Mica facile. Il tema e', prima ancora che teologico filosofico psicologico etico psichiatrico, lessicale. Etimologico, quasi ontologico, sebbene non necessariamente logico. Se sotto la pelle mia mortale dimora al di la' di ossa cuore fegato polmoni un quid immateriale che chiamiamo Coscienza, urge accordarsi sul significato. Senno' si fa confusione. E va bene cosi', per carita'. E' dal Caos che di solito nasce Ordine e Bellezza; dalle stasi della certezza raramente si generano dinamismi coerenti. Coscienza. La Coscienza e' Intelligenza? E' Scienza? Certo, anche. E' Sapienza, Esperienza, Conoscenza. E l'oggetto conosciuto, saputo, esperito, cosa e'? Noi? L'Universo? Il rapporto tra Noi e l'Universo? O il rapporto tra Noi e l'Universo definito istante per istante, in quanto continuamente variabile? E il soggetto che sa, conosce, esperisce, chi e'? L'Io? Un Altro fuori di me autocosciente ed onnisciente? Un Universo senza consapevolezza escatologica, ossia pura materia inerte ed inerme? Oppure la Coscienza stessa dentro di me ma distinta dall'Io, Autocoscienza altra da me sebbene in me? E la Coscienza non e' definibile ne' concepibile senza i suoi opposti; spesso chiamiamo Coscienza la manifestazione dei suoi contrari. Incoscienza, inconscio, in-esperienza, in-sipienza: sono le paure della Coscienza, le sue lacune, i suoi lati oscuri e inafferrabili, forse istintivi, forse autentici, forse la Coscienza stessa che tanto cerchiamo. Strana la Coscienza: e' guerra all'inconscio o sintesi dialettica di singole Incoscienze?

14 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho letto e credo che la Coscienza - quale che sia la Sua definizione più esatta (laddove per "esatta" si intende 'più prossima al nostro concetto di Coscienza') - si manifesta all'Io, per lo più, nei nostri sogni.
Ho letto che coloro i quali hanno la capacità di realizzare - durante un sogno - che stanno sognando, hanno una Coscienza più acuta.
Leggasi: un "livello di attenzione e di consapevolezza" più alto.

Da quando ho acquisito Conoscenza e Consapevolezza di questo, ho iniziato a sognare in modo diverso.
Riconosco, talvolta, i sogni come tali e mi comporto di conseguenza.

Dentro di me e, dunque, dentro ognuno di noi, c'è "Qualcosa". Io continuo a cercare "fuori", per trovare "dentro".
E continuo a carcare "dentro" - specie nei sogni -, per trovare "fuori".

Stefano ha detto...

Detta così, come uno la impara a scuola, sembra la cosa più semplice del mondo: la coscienza è la qualità di percepire ciò che esiste. Niente relativismi, per una volta. Se ho in mano un libro di Antonio Di Pietro, quello è proprio un libro di Antonio Di Pietro, non un’allucinazione (anche se qualcuno potrebbe avere dei dubbi). Però, come se non bastassero le sfumature che siamo abituati a dare nella vita reale, in rete le cose si complicano: “esiste” troppa roba (sì, certo, e un sacco di porno). Forse, allora, quello che c’è dentro di me, la mia coscienza virtuale - per dirla così - ha a che fare proprio con il fascino di tutta quella mole d’informazioni oggi tanto accessibile.
Guardare, leggere, ragionare in solitudine già basterebbe. Ma alla possibilità di trasmettere quello che percepisco, e dunque ciò che “esiste” per me, è difficile resistere. È come una continua definizione e affermazione di sé messa nero su bianco, la vecchia storia del fiume che è sempre un fiume - eppure mai lo stesso - riscritta con i pixel.
Il più delle volte, poi, per farti notare non devi nemmeno somigliare a Susan Boyle, né cantare come lei, né fare qualsiasi altra cosa che possa danneggiare ulteriormente l’immagine delle donne scozzesi nel mondo. Il pubblico, il tuo pubblico, arriva da solo. Certo, il prezzo da pagare è quello di dare le chiavi della tua coscienza virtuale a un motore di ricerca. Però, in fondo, un po’ d’incoscienza ci vuole.
"Leibniz"

Anonimo ha detto...

...citazione: "L'eccesso di informazioni equivale, nei fatti, alla carenza assoluta di informazioni...".
Tradotto in parole povere: qui non si va da nessuna parte, altro che Universo, Coscienza Assoluta e Dio...

Per il resto, le Tue sono ottime (e profondissime!) considerazioni. Però una domanda s'impone: ma 'sta Susan Boyle, chi caz...pita è, che la citano tutti a Dx ed Sx???
Voglio dire: ho cercato su Google ed ho trovato questa Tizia, che è brutta come la Befana, ma canta da Dio.
Ok: c'è gente che ha la "Virtù Nascosta".

E allora?...

Please, explain!

Stefano ha detto...

E' la straordinarieta' dell'ordinario.

Era salita sul palco nell’ ultima selezione “Britain’s got Talent”, il giorno 11 aprile, offrendosi come una vittima sacrificale agli sfottò del pubblico, al ghigno dei professionisti dello show e dei giudici: ma chi sei, ma come ti sei vestita, ma quanti anni hai? “Ne ho 48”. Risate come per dire: e che ci fai (ancora) nel nostro mondo? Che aspettativa di vita felice pensi di poter avere ancora, messa come sei?
Poi Susan Boyle ha cantato. “I dreamed a dream”, il musical dei “Miserabili”, quasi un manifesto di poetica. Si sono alzati in piedi, avevano i lucciconi agli occhi. Tutti. E poiché una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, la “cyberfable” è su YouTube in un istante, in poche ore sono uno, due, cinque milioni di clic in due giorni. Quasi venticinque milioni Cento, duecento milioni in un mese mettendo insieme i totali. Occhi anonimi e famosi, Demi Moore che piange su Twitter, Kylie Minogue che spende per lei i suoi complimenti. E poi le promesse di contratti come una pioggia di stelle, dalla Sony Music in giù, e i canali tv che se la contendono, in patria come in Australia. E in America: dal “CBS’s Early Show” a “Good Morning America” al “Larry King Live” della CNN, fino al collegamento via satellite con “The Oprah Winfrey Show”, che è come dire essere finalmente invitata al ballo della Regina, ed entrarci con la carrozza e lo strascico di diamanti. C’è persino un’intera pagina sul Washington Post, c’è persino un invito di Michelle Obama per cantare il 4 luglio alla Casa Bianca, se soltanto si sentirà meglio.
Una favola, di quelle che sembrano fatte apposta per far sentire tutti più buoni, peccato che non fosse Natale. Per farci credere nella forza della democrazia, nella possibilità che non è negata mai a nessuno. Peccato che poi sia invece la forza del televoto, e non quella del destino, a decidere. Così alla fine ha vinto un gruppo di ballerini che si chiamano “Diversity”, roba da street dance, per chi gli piace. Ma le miriadi di e-mail e di messaggi che sono piovuti come una polvere di stelle sopra Susan Boyle e il suo talent-show raccontano tutti la stessa storia, donne e uomini che si sentono uguali a lei, brutti e perdenti all’apparenza, in realtà diamanti grezzi ancora da scoprire, nascosti nelle profondità insondabili dell’io, vittime provvisorie di uno di quei giochi che fa la vita. Cinderella, o meglio ancora il Brutto Anatroccolo. Ma poi, siccome questo nostro mondo alle favole non crede cinicamente più, né ai lieti fini, che hanno pur sempre qualche lontano debito da saldare con la metafisica, con la resurrezione, ecco che la fiaba finisce male. E agli osservatori più smaliziati la storia di Susan Boyle può infine sembrare soltanto un apologo mediatico, la cyber-fiaba appunto: i quindici megabyte di celebrità che hanno sostituito ormai, come unità di misura del diritto alla felicità, i quindici minuti warholiani.
O dicono che Susan è come Jade Goody, la ragazza inglese divenuta famosa per il “Grande Fratello” e che poi aveva trasformato la sua malattia, e la sua morte, in un grande compianto telematico, l’infinito sentimento di una morte in diretta, accompagnata e pianta da milioni di spettatori. Jade Goody è esistita perché la televisione esiste, hanno detto di lei. Così pure Susan, dicono ora, è apparsa come una cometa finché lo show non ha spento le luci. E invece no.

Stefano ha detto...

Non è così. Fosse solo per questo, per la favola consolatoria e l’apologo mediatico, non gli dedicheremmo il nostro affetto. Né Cincerella né Brutto Anatroccolo, Susan Boyle forse sta a significare qualcosa di più, di meno consolatorio e di più disturbante, a volerlo guardare e accettare. Di meno consumabile in pugno di byte. E stata l’apparizione della donna brutta, la sfigata, la zitella. La mai baciata, come ha confessato lei in un’intervista, che mai ha conosciuto un uomo.
Anatema sit, nella nostra cultura nella nostra società, per la nostra immagine del corpo, del piacere, del sesso. Lo scandalo di cui si era pronti a ridere del suo essere illibata, mio Dio, una che probabilmente non ha mai nemmeno letto un articolo sul sesso tantrico in qualche tabloid per aspiranti starlette. E invece ha qualcosa che commuove, diventa famosa, ce la fa. Da anatroccolo a cigno. Finalmente è diventata una di noi. La verità è un’altra. Che la sua favola ha commosso e stupito perché bella era la sua vita anche prima. Normale, diversa, dura. Ma non forse così malaccio, se poi ha imparato a cantare così. Se poi è spontanea così. Perché la sua è una vita normale e non male, nel suo essere fuori dal canone di quel che la gaia scienza televisiva, la dura legge del reality show ritiene normale, belle. Obbligato.
La sua vita normale, con la sua bella dose di duro e di fatica, la vita normalmente incredibile, guardata con commiserazione o sospetto, di una “scottish catholic churchgoer” che aveva un padre minatore e veterano di guerra e cantore, pure lui, nella cappella del vescovo. “Vengo da una famiglia musicale – dice – lo è sempre stata, cantare è una cosa che ho sempre fatto, ce l’ho nel sangue da quando avevo dodici anni e partecipavo agli spettacoli della scuola”. E una madre anche lei appassionata di canto e di spettacolo che la mise al mondo, settima di nove fratelli, quando ormai aveva 47 anni. E lei per quel parto già fuori tempo massimo aveva avuto pure un sacco di problemi alla nascita, problemi di ossigenazione, tanto che i medici le avevano pronosticato in futuro difficoltà nell’apprendimento.
Simon Cowell, il suo scopritore e mentore al “Britain’s Got Talent”, dice che a fare di lei un personaggio sono quelle sue risposte corte e secche, il marchio di fabbrica del suo “no-nonsense approach to life”. Forse intende, in questo modo, esprimere lo stupore per la sua vita ordinaria che è trascorsa a curare la mamma e a cantare in parrocchia. Ma siccome a differenza delle favole malinconiche la vita è quel che viene incontro e non quello che se ne va, Susan Boyle ha deciso che era il momento per provarci, in quella strana corrida di dilettanti allo sbaraglio e pronti a prendersi anche l’insulto e lo sghignazzo. Lo decise nel 2007, quando sua mamma morì a novantun’anni. “Mi riposai un po’ dopo che mamma morì, e vidi ‘Britain’s Got Talent’ in tv e pensai che avrei voluto andarci”. Anzi dice che sua madre aveva sempre pensato che avrebbe potuto farcela, vincere a uno di questi benedetti concorsi. Ora Simon Cowell spiega che potrebbe incidere un album da scalare le classifiche americane, dice che “the sky is the limit” e che tutti quei milioni di contatti su Internet potrebbero trasformarsi come in una favola in oro zecchino.
Poi però la fiaba al contrario è tornata all’ inizio, a un letto d’ospedale e a una vittoria sfumata. Tutti credono di essersi commossi davanti a lei e alla sua voce perché canta bene, perché la sua sembra la favola di Cenerentola. Niente di meno vero. Ci siamo commossi perché a un certo punto, come una fata buffa, sullo schermo vuoto del talento è apparsa una donna che, misteriosamente, doveva avere avuto una vita piena di talento anche prima. Chissà dove si era nascosta.
via Il Foglio

Anonimo ha detto...

...Bellissima storia.
Vera, a quanto ho letto e capito. Molto bella.
Ho anche visto il filmato della sua performance: davvero super, eccelso e commovente, da brividi.

Forse è vero. Forse Susan era già straordinaria "prima". Anzi: senza dubbio è così.

Deve essere così...Sennò tutto questo non ha senso...

Stefano ha detto...

Io una coscienza standard non l'ho mai avuta. Non nella forma del libro mastro su cui segnare il dare e avere – e fare bella figura nel confessionale – e neppure in quella dell'album dove immagazzinare stati di coscienza con la cura di una padrona di casa borghese dell'Ottocento. Deve essere un difetto di fabbricazione, ma davvero non mi riesce di collezionare momenti di vita vissuta con cui arredare il salottino biedermeier della mia supposta coscienza. Non avrei neppure la pazienza di spolverarli 'sti benedetti “erlebnis”. Eppure, nel momento in cui dubito della consistenza della mia vita interiore, mi rendo conto che qualcosa che si agita c'è. Solo che non è nulla di definitivo, ben rotondo e pieno. Sono increspature, stati esperienziali. E' il non abbassare gli occhi quando da piccolo in chiesa avveniva la consacrazione dell'eucarestia, è il grumo d'oscurità che vedo in fondo agli occhi della persona che amo e che non potrò mai sondare per quanto forte sia il mio sentimento, è il luccichio d'umanità che scorgo in fondo alle pupille dell'assassino più bestiale e che alla fine lo rende mio fratello. Hegel – quando non si era ancora caricato sulle spalle il destino dell'università tedesca – diceva che “un calzino rattoppato è meglio di un calzino lacerato, ma non è così per la coscienza”. Ecco, in fondo è la metafora più bella: la coscienza è una lacerazione, una ferita che ci mette in contatto con il mondo.
Paolo Ferrandi

Anonimo ha detto...

...Molto bella. Molto profonda.

La mia Coscienza. Praticamente la mia faccia, riflessa in uno specchio, mentre sto sognando di specchiarmi.

Stefano ha detto...

La coscienza è il quid che ci muove anche nell'universo virtuale e costantemente mutevole del Web. Un mondo che ha destrutturato la verità, che all’essere preferisce la doxa, che alla potenza gnoseologica della parola, predilige la gorgiana arte della persuasione. Dove il linguaggio è strumento di convincimento e di diletto più che svelatore di verità. E’ in questo “impero della parola” che si agita la coscienza. Pur in un mondo potenzialmente infinito e con milioni di soggetti che vi partecipano, la coscienza virtuale vive in una dimensione solipsistica. Si crede l’ombelico del mondo perché di quel mondo dove coesistono il tutto e il suo contrario, è partecipe. E ha l'illusione di esserne protagonista divincolandosi fra miriade di blog e di social network. Con la presunzione che poiché il suo punto di vista è condiviso da altri, per forza debba essere almeno in parte giusto. E in un mondo che slaccia la parola dalla conoscenza, e che ha perso la dimensione ontologica del linguaggio, questa pretesa è quantomeno tristemente comprensibile.
Alberto Simoni

Stefano ha detto...

Io non lo so.
Non posso risponderti, anche se mi piacerebbe tanto saperlo fare. Non so cosa intende la nonna quando dice “mettiti una mano sulla coscienza” – cos’è la coscienza, papà? E dov’è, per metterci la mano sopra? – e non so cosa vuol dire il mio capo quando siamo in riunione e ci guarda e scuote un po’ la testa e borbotta “beh, in tutta coscienza io credo che”. Hanno provato a spiegarmelo, sai, ci hanno provato in tanti - la nonna e l’insegnante di catechismo e il professore al liceo e i giornali – il bene e il male e l’infinito dentro di me.
A volte mi è sembrato di capirlo, un pomeriggio davanti al crematorio di Mauthausen e una mattina sopra l’oceano e cinquemila miglia di nuvole, mi è sembrato di poter toccare e dire con certezza cos’è che ho dentro, cos'è che tutti abbiamo dentro. Poi ho pensato che a quel crematorio aveva lavorato uno come me, identico in tutto e per tutto, passato attraverso il catechismo e la mamma e la scuola e le buone letture e ho pensato che pochi giorni prima avevo firmato - in tutta coscienza, direbbe il mio capo - ventidue lettere di licenziamento.
So che dovrei aiutarti, insegnarti, darti delle certezze, e invece ti riempio la testa con i miei dubbi; prima o poi passerai anche tu in mezzo a tutto questo, lo fanno tutti, non si può scappare da quella domanda - chi sono -: io non ti darò una risposta, se tu mi chiederai di aiutarti, perché non sarò in grado di farlo; ma ti prometto che non ti parlerò di coscienza: quella, se avrai un po' di fortuna, la troverai per conto tuo.
Sergio Pilu

Stefano ha detto...

Quella cosa che c'è nei vecchi cartoni animati, con l'angelo e il diavolo che suggeriscono. L'angelo dice Non farlo! e il diavolo Fallo! Fallo! e poi magari capita che fanno anche a botte. Sulle prime il protagonista dà retta al diavolo, solo che gli capita qualcosa di brutto e alla fine succede sempre che vince l'angelo. Il che è strano se pensi che l'angelo in genere è un po' patito e gracilino, mentre il diavolo è sempre bello in forma e pure un po' palestrato. Immagino che sia per la faccenda dei messaggi che dai ai bambini, del bene che
trionfa eccetera. Con me però non funzionava. Avrebbero dovuto fare il diavolo un po' meno figo. Io quando vinceva l'angelo mi incazzavo. Dev'essere per questo che son venuto su così.

* * *

Dicono che la coscienza rispecchia quel che è uno veramente, cioè, non è che ti dice le cose oggettivamente giuste, lei: te le dice giuste in base a quel che sei. Cioè se uno nasce ladro avrà una coscienza che gli dice di rubare il più possibile, com'è logico che sia. Poi magari la stessa coscienza gli impedirà di rubare a un povero, o a un bambino, oppure se è proprio una coscienza maligna (il che implica la malignità del proprietario) gli dirà di fregarsene del tutto, e anzi di approfittare delle situazioni di debolezza delle vittime. Persino un mafioso, o un nazista, avrà una sua coscienza che gli dice che in quel momento, che magari è lì che sta ammazzando qualcuno, sta facendo bene, a far quel che sta facendo. Tutto questo per dire che la coscienza, come concetto, è sopravvalutato. Io sono per cose meno assolute. Tipo lo stomaco. Avete mai provato ad ascoltarlo, lo stomaco? Io sì. Lui non ti stressa mai, giusto ogni tanto, per questo siamo molto amici. È una brava persona.

* * *

Io, la mia coscienza, non so se ci ho mai parlato. A volte mi manda dei messaggi, sì, ma non sono quei messaggi che uno si aspetterebbe, da una coscienza. Tipo che tu sei lì che ti arrovelli su una scelta che ti potrebbe cambiar la vita, e lei ti dice Ho proprio voglia di un gelato, o anche Secondo me dovresti tagliarti i capelli. Oppure sta proprio zitta. Poi magari passa un po' di tempo e si fa viva, come se si fosse distratta un attimo, e ti dice Scusa, cos'è che mi avevi chiesto? Oppure parla al passato, questo lo fa spesso: ieri dovevi far così, l'anno scorso dovevi far cosà. Grazie tante! Così son capaci tutti. L'altro ieri ad esempio ero in pizzeria, stavo guardando la lista delle birre, lei era lì che sembrava dormisse, e invece a un certo punto mi fa: Guarda, il tre settembre novantasei hai fatto proprio una gran cazzata.

Stefano Andreoli

Stefano ha detto...

Io ce l'ho col peccato originale. Questa faccenda che l'uomo sia cattivo e possa essere salvato dalle sovrastrutture etiche non m'ha mai convinto. Anzi, per me è tutto il contrario, che l'uomo è buono e son le sovrastrutture a fregarlo.
Noi saremmo naturalmente portati a voler bene - soprattutto a non voler far male - al prossimo, a tutti gli altri individui che condividono la nostra sorte; sono le varie circoscrizioni al ribasso della nostra specie a permettere l'elusione della Regola d'Oro: "non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te". La disumanizzazione del prossimo, perché ha la pelle di un colore diverso, perché crede in un altro Dio, perché ha un'altra patria, rendono il prossimo - appunto - meno umano, disinnescando questo benigno riflesso condizionato.

Dunque sì, c'è davvero quella solita ignota chiamata coscienza, ma quando Madre Natura ce l'ha messa in dotazione non l'ha piazzata nel cuore o nell'anima, l'ha sistemata nel cervello, origine di tutti i beni. In realtà non la si dovrebbe chiamare coscienza, ma neuroni specchio, perché senza di quelli saremmo fregati: quando vediamo una persona stare male, stiamo male. Funzionano, funzioniamo così. E per una ragione semplice: ci conviene. Vivere a contatto con qualcuno che soffre se noi soffriamo, lo rende meno cagionevole all'egoismo. Dite che è una prospettiva gretta e una lirica illusione dell'età della Scienza? Macché, sapere che un seme di bontà è dentro chi ci sta accanto, è molto meglio che immaginarlo alle prese con una morale forzosa costruita per interposta divinità. Siamo buoni, ora dobbiamo dimostrarlo.

E quanto al lirismo dell'illusione, beh, sto con Trilussa:
Io, ne convengo, faccio una pazzia / a commette er peccato origginale: / ma er giorno che conosco er bene e er male / me formo una coscienza tutta mia. / Sarò padrone e schiavo de me stesso, / bono e cattivo, giudice e accusato / e, all'occasione, intelliggente e fesso.

di Giovanni fontana

Stefano ha detto...

La coscienza è individuale. E’ la cosa più semplice e, assieme, profonda che si possa dire. Nel senso che la coscienza è quel “come si dice” che, in modo imperfetto e fallibile, indirizza le azioni di ciascuno e consente di esprimere un giudizio – non una mera opinione, non un pour parler – su quel che facciamo noi e fanno gli altri. Dunque la coscienza è quella parte del nostro organismo che, così come il fegato e la milza svolgono le loro funzioni vitali, è deputata a farci agire in modo responsabile. Ora, se la coscienza valuta il nostro comportamento alla luce dei nostri valori – valori che derivano dalla nostra storia e dalla nostra civiltà, ma in senso più ampio dal fatto che siamo esseri umani e non babbuini o cavallette – è chiaro che all’opposto della coscienza non c’è l’irresponsabilità o l’incoscienza. L’irresponsabilità e l’incoscienza sono la mancanza di coscienza, il suo momentaneo silenzio o la nostra transitoria cocciutaggine. All’opposto della coscienza c’è l’assenza assoluta di coscienza, cioè la deresponsabilizzazione che, nel nostro mondo e nel nostro tempo, passa per il più fondamentalista tra tutti i fenomeni religiosi: lo Stato. Etico o sociale, non tollera la libertà di pensiero: per questo la scuola pubblica, per questo il politicamente corretto, per questo i mille tentativi di sottrarre al privato per dare al pubblico, di sacrificare l’individuo per celebrare la comunità. Lo Stato seduce i singoli con la tentazione che, mettendo in piazza i problemi di ciascuno, il gruppo se ne farà carico. Ma in questo modo lo Stato si porta via un pezzetto di noi. Togliendoci la responsabilità, ci priva della libertà, e alla fine la nostra coscienza diventa inutile: cediamo, con Giovannino Guareschi, “al dio crudele della gente che non crede in Dio perché, se vi credesse, potrebbe vivere felice all’ombra delle sue eterne leggi”. Che, va da sé, sono inscritte appunto nella coscienza: e il cerchio si chiude.

Carlo Stagnaro, Realismo energetico

Stefano ha detto...

Dentro di me c'è un illustrissimo sconosciuto.
E' la scoperta, fortunatamente, non solo di Susan Boyle, ma di tantissime persone in questi mesi. E' la crisi, bellezza.
Questa situazione ha portato in realtà qualcosa di molto buono, un bel regalino sotto l'albero di natale 2008 che stiamo scartando un po' per volta in questi mesi.
Quale regalo? Ci ha costretto a fare un po' di ricerca dentro di noi, ha liberato del tempo per la scoperta di qualcosa che in fondo c'era già. Si potrebbe quasi dire che dentro ognuno di noi, è stato creato l'antidoto anticrisi.
L'alchimia si è realizzata nel laboratorio delle mura casalinghe protette dalle relazioni pacifiche con amici, affetti, amanti, mogli e mariti, il cosiddetto privato. Questo goduto ripiegamento su ciò che conta di più ha prodotto la pozione magica, l'alternativa, il rimedio curativo. La fatale domanda: cosa c'è dentro di me?

E' venuto il tempo che io - piccolo uomo o piccola donna – potessi giocare la mia grande occasione. Quella di chiedermi "o la và o la spacca", come per Susan Boyle. Cosa cavolo ho dentro di me in questa coscienza salvifica che mi vuole solista? Quale è il mio X factor che fa di me un essere unico ed irripetibile, leader di me stesso, anzi, Dio della mia vita?
Non devo improvvisarmi teologo, non devo ricorrere ad anni di terapie psy, non sono costretto ad affidare ad altri una ricerca, è già tutto lì. Qui.
Questa è la scoperta, pronta a manifestarsi se tendo l'orecchio, se mi avvicino, se mi autorizzo, se me ne frego di ciò che gli altri hanno previsto per me, se mi libero.
Un "poteressere pret-a-porter" che è il segnale, mica tanto piccolo, di una potente rivoluzione che va preparandosi, quella che parte dal basso, quella di una nuova saggezza.
Non devo più curare troppo le idee di altri, farmene paladino, mi basta solo tendere un mezzo orecchio, ispirarmi e vedere cosa mi risuona dentro.
Forse è davvero la fine della “gurulogia” e del saggio "autorizzato". La novità è che il saggio sono io e tutto ciò che mi serve richiede solo un piccolo sforzo di silenzio e di fiduciosa attesa. E' la mia grande occasione. E poi non ho più nulla da perdere, tanto c'è la crisi.
E vi pare poco?

Emmebi