domenica 2 agosto 2009

Yes we camp

Per farla breve: ho deciso di trascorrere un mese in Abruzzo. Nessun intento moraleggiante del genere mentre l’Italia è in vacanza stiamo in mezzo ai terremotati. Piuttosto il contrario, una fuga dalle città svuotate e dalle spiagge affollate, e giorni lenti tra i paesi del sisma, nelle tendopoli, tra le sagre paesane e le notti che sembrano tutte notti di San Lorenzo. Niente chiacchiere da ombrellone, niente elenco dei negozi di città chiusi, niente calcio mercato, niente vacanze dei vip, solo il racconto declinato mille volte delle 3 e trentadue, e storie di vite rimescolate e futuri in discussione, e la vita nelle tende: non c ‘è posto più lontano dall’Italia di agosto dell’Abruzzo, in queste settimane, neanche l’Afghanistan delle elezioni, e questo, per chi ama le storie, è una bella storia. La prima cosa che ho imparato, in questi giorni, è che ogni tendopoli è una comunità a sé. Apparentemente si assomigliano tutte, e hanno regole restrittive, che rendono difficile l’ingresso ai giornalisti e alle telecamere. Poi, a ben guardare le tendopoli tutte uguali dei primi giorni sono andate acquisendo un’anima propria, ognuna una comunità a sé stante. Non lo so se si siano andate modellando sull’anima dei paesi che hanno raccolto, o siano il frutto di comunità ricombinate di gente senza casa, volontari e istituzioni diverse, ma ho capito che ognuna fa storia a sé. Quella in cui vivo, in cui hanno ospitato il mio camper e la mia tenda, è una tendopoli non molto grande, ai piedi delle montagne e del paese di Villa Sant’Angelo e delle sue frazioni, a una ventina di chilometri dal capoluogo. E’ un campo gestito dalla Protezione Civile dell’Emilia Romagna, e i volontari, che siano quelli del 118 oppure gli alpini, parlano tutte le sfumature della via Emilia. Tutto è molto ordinato, efficiente, pulito: le docce e i bagni, la cui pulizia è affidata a turno a un gruppo di tende, sono immacolati. La gente è affabile e ospitale, anche se ogni famiglia mantiene una sua riservatezza, che ha come monumento una pianta messa all’estero di ogni tenda: chi ha scelto un oleandro, chi un semplice geranio. Davanti a una tenda c’è parcheggiata una carrozzella da invalido. Un'altra ha poggiata accanto una mountain bike. Accanto a una tenda che sfioro per andare al bagno, la mattina, c’è sempre seduto un giovanotto silenzioso che fuma con accanimento. Nella tenda dietro alla mia c’è un cagnolino che abbaia quando passi, come se fosse casa sua. All’esterno della tendopoli, in un campo dall’altra parte della strada c’è una specie di canile. Ho chiesto quale fosse stato il criterio nello scegliere, e mi hanno risposto che è stata lasciata libera scelta. Chi aveva un cane abituato al giardino di casa ha scelto il canile, chi aveva un cane da salotto se l’è portato in tenda. I quattro del canile, in più, sono cani da tartufo, trattati da re. Poi ci sono i randagi, che qui venivano chiamati, prima, cani di quartiere, perché ogni borgo li sfamava. Per un po’ se ne sono occupate unità zoofile, che hanno anche dato da mangiare ai gatti rimasti soli nel centro storico. Dall’altra parte della strada, nel parcheggio, c’è il camper di una coppia scozzese. Avevano comprato casa a Villa Sant’Angelo lo scorso mese di ottobre. Doveva essere per ora una casa di vacanze. Il marito è un vigile del fuoco in pensione, ma alla moglie manca ancora qualche anno di insegnamento. Il loro sogno era di venirci a vivere, poi. L’avevano scelta dopo aver conosciuto e girovagato la Toscana e l’Umbria, e scoperto infine l’Abruzzo. “Troppi inglesi, lassù – mi hanno detto con fierezza da kilt – e poi qui la gente è semplice, generosa, si sta bene”. Avevano appena iniziato ad arredare la loro casa, di cui conservano poche fotografie. Sono tornati qui a giugno, quando lei ha finito le scuole a Glasgow. Non riescono ancora ad orientarsi nei meandri della ricostruzione, e non sanno se gli spetti o meno qualcosa. “Ma ci sentivamo parte di questa comunità, e non vogliamo lasciarla ora”. Erano stati invitati nella tendopoli, ma hanno preferito un angolo ombroso del parcheggio di fronte. Di giorno il sole è impietoso, e la ghiaia bianca riverbera una luce che rende gli occhi fessure. La notte è fredda e umida, e i momenti migliori, così, sono il primo mattino e il tramonto, cioè i momenti in cui si tengono un’alzabandiera e un’ammainabandiera che non irriterebbero neanche un no global, con qualche alpino che saluta il vessillo, le donne che raccolgono il bucato dai fili tra le tende, gli odori della colazione o della cena che escono dal grande tendone della mensa,e l’aria ingenua e quieta di uno strano villaggio che inizia e chiude le sue giornate. Il nuovo villaggio incomincia a rivelare le sue forme, qualche centinaio di metri più in là. Lo sta costruendo, in un cantiere alacre da dieci ore di lavoro al giorno, la provincia autonoma di Trento. La ricostruzione, quella è un’altra storia. I vigili del fuoco, in paese, stanno mettendo stampelle e imbracature agli edifici pericolanti, e qualche strada è già stata sgomberata dalle macerie. Ma ci vorranno anni, e un lavoro da chirurgo. Dovessi scommettere sul futuro, lo farei solo perché qui c’è un sindaco, Pierluigi Biondi, bravo, giovane, molto determinato. Sono andato l’altro giorno nel paese di Castelnuovo, che campeggiava come dimenticato sulla prima pagina de la Repubblica. Lì le macerie erano intatte, e l’area per le case provvisorie non aveva ancora l’aspetto di un cantiere neppure iniziale. Ma era piuttosto evidente che le responsabilità, più che l’oblio degli organi centrali, stava nell’indecisione del sindaco, sopraffatto dall’emergenza, e combattuto tra gradi diversi di danni nelle tante frazioni del capoluogo. Così, l’unica cosa autentica del reportage dal terremoto dimenticato del buon Jenner Meletti era la figura dell’ottantenne che se ne era tornato a casa, abbandonando la tendopoli. Ci ho parlato, con il vecchio Sabbatino, e la cosa più bella della sua caparbietà era il fatto che gli dispiaceva di far notizia, e di creare problemi, da buon vecchio poliziotto che vuol morire in casa sua, in punta di piedi. Ma, erettolo a simbolo, s’erano scordati di citarne la professione.
Toni Capuozzo

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