Si litigava sulla grazia a Sofri - qui, su questo Giornale - e volarono accuse al limite dell’insulto, roba pesante, un corsivo contro l’altro, mica finzione. Avevo cominciato io e il direttore Maurizio Belpietro ricambiò dandomi in sostanza dell’ignorante; io per contro accusai Mario Giordano, un giovane inviato, di puerilità e semplicismo. Il caso fece un chiasso trascurabile ma sentito, e i lettori comunque mi scotennarono; ricordo che un solo collega, Giampiero Mughini, da vero fuoriclasse, mi diede la sua solidarietà. Quel Mario Giordano, tempo dopo, me lo ritrovai come avversario in una partita di calcio: galoppavo sulla destra e mi fece un fallo da espulsione (a vita) che mi fece rotolare a terra per quattro volte; mi rialzai digrignando i denti e lui mi disse pure: «Non è fallo». Ne seguì una di quelle scene penose dove un esagitato (io) viene trattenuto a stento dai compagni mentre menziona uno a uno i santi del calendario. Quando poi quel Giordano divenne direttore del Giornale, tutti a dirmi: tu hai chiuso. Invece questa rubrica, che da anni scorrazzava impunita in questa prima pagina, non solo fu mantenuta, ma divenne ancora più libera, persino troppo, un caso praticamente unico nel panorama nazionale. E siccome si vive una volta sola, io, che a dire «grazie» mi viene un’emiparesi facciale, oggi gli dico: grazie. Non me ne hai mai censurata una e non mi censurerai neanche questa, l’ultima.
Facci
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