venerdì 22 agosto 2008

Pessimismi di scuola

Un vecchio tema sulle fasi del pessimismo in Leopardi, di dieci anni fa. Lo posto per fare databas, anche se avevo ricevuto giuste critiche sul suo essere "troppo scolastico". Mi sa che era piaciuto solo a professore.
E’ il Leopardi stesso, nello Zibaldone e nelle lettere inviate al Giordani, a tracciare il suo percorso artistico e l’evoluzione del suo pensiero: il primo momento è quello dell’erudizione (“furono sette anni di studio matto e disperatissimo”); nel 1816 avviene la “conversione al bello”, alla poesia- Leopardi compone i “Primi Idilli”- ; del 1819 è, infine, la “conversione al vero”, alla filosofia- con le “Operette morali”-.
La concezione del mondo e della vita del Leopardi è pessimistica: il suo pessimismo nasce dal contrasto tra realtà e ideale. E’ stato notato da alcuni critici che quando il conflitto tra ragione e cuore è autenticamente e particolarmente sentito, il Leopardi tocca le vette più alte della poesia; la vera poesia leopardiana nasce dall’acuirsi del dissidio tra razionalità e sentimento.
Il pessimismo di Giacomo Leopardi attraversa diversi momenti, e subisce una significativa evoluzione.
Il pessimismo storico, che caratterizza la prima fase del pensiero leopardiano, quella che va dalla conversione al “bello” fino al 1824, anno della composizione della maggior parte delle “Operette morali”, è di matrice rousseauviana. Il pessimismo è definito storico perché riferito alla storia: l’uomo, evolvendosi, si è allontanato dallo stato di natura, dove viveva “semifelice”, in una sorta di armonia mistica con la natura, per entrare nella civiltà, in cui la ragione lo ha corrotto.
Il Leopardi inizialmente crede, come Rousseau, che la natura possa rispondere a tutte le esigenze dell’individuo. Nel momento in cui l’uomo viene sradicato dal suo “habitat”, avviene il processo di alienazione. L’inserimento nella società corrompe l’individuo. L’infelicità è considerata, dunque, opera degli uomini, che hanno perduto il “linguaggio della natura” sotto il dominio della ragione. La natura è concepita come una “madre” provvida e benevola.
Già prima del 1816, però, Leopardi aveva constatato la propria angoscia individuale e si era convinto di essere destinato alla sofferenza (senso del pessimismo individuale, che si può riscontrare ne “Il passero solitario”). Già nel suo “tempo migliore”, nella “novella età”, il Leopardi si sente l’unico infelice, mentre ritiene gli altri felici – “Tutta vestita a festa la gioventù del loco lascia le case e per le vie si spande, e mira ed è mirata, e in cor s’allegra…Io..ogni sollazzo..indugio in altro tempo”-.
In seguito, però, il Leopardi passa alla formulazione del pessimismo universale, evidente, ad esempio, in “A Silvia”. Il poeta comprende che tutta l’umanità è infelice, per cui, da un sentimento di invidia, quasi, o di astio nei confronti del prossimo, passa ad una forma di comprensione.
Silvia rappresenta le speranze della giovinezza che nell’impatto con l’ “arido vero” si frantumano. La natura, allora, non è “benigna”, ma “matrigna”, è una forza fredda, insensibile, indifferente nei confronti dell’uomo. Il Leopardi, dopo il 1823, attribuisce la causa dell’infelicità umana alla natura, natura che non mantiene le promesse (“O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?”). Con il “Dialogo della Natura e un Islandese” (appartenente alle “Operette morali”) e con il “Canto notturno” il Leopardi approda al cosiddetto pessimismo cosmico: tutti gli uomini, tutti gli animali, tutti i regni, i globi, i sistemi, i mondi mostrano uno stato di “souffrance”, l’infelicità si riscontra in tutte le forme di vita esistenti al mondo. L’uomo, come tutti gli altri esseri viventi, nasce al solo scopo di morire: l’esistenza dell’universo ha come suo unico scopo la propria conservazione attraverso un perpetuo ciclo di produzione–distruzione, che ha come necessaria conseguenza la sofferenza degli individui. La natura non è, propriamente, ostile, ma indifferente ai bisogni dell’uomo.
Come Lucrezio afferma che ogni creatura patisce gli scacchi della natura (basti citare “Il dolore della giovenca”), così il Leopardi si accorge che ogni creatura mostra uno stato di “souffrance” (è sufficiente leggere “Il giardino del male”).
Questo coerente e rigoroso materialismo porta il poeta a constatare che “in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”.
Ma nell’ultima fase della sua riflessione il Leopardi, proprio movendo da una visione radicalmente negativa dell’universo e dell’esistenza umana, approda non già ad una forma di nichilismo, ma ad una “utopia solidaristica”, ad un invito a tutti gli uomini affinché si consocino per combattere la malignità della natura. La coscienza del comune male e del comune nemico dovrebbe affratellare gli uomini e destare in loro un senso di “caritas” nei confronti dell’umanità, condannata alla sofferenza, vittima dell’ostilità, sebbene inconsapevole, della natura (“La ginestra”).
Il Leopardi è stato spesso accostato a Shopenauer per il senso angoscioso e doloroso dell’esistenza. Ma il pessimismo di Shopenauer sfocia in una sorta di rinuncia alla lotta, in una forma di atarassia, aponia di epicurea memoria. Shopenauer perviene ad una sorta di fatalismo, di rassegnazione. L’ultimo stadio del pessimismo leopardiano, invece, può essere definito “agonistico”, o attivo, il Leopardi lotta anche quando sa che la battaglia è perduta in partenza. Dopo il 1823 il Leopardi non esclude la lotta: è un pessimismo eroico, che sfocia nel titanismo, in un nuovo atteggiamento etico, in un impegno morale, in un invito alla solidarietà degli uomini contro la comune “inimica”, la natura.
“La ginestra” è la summa della poesia e della meditazione dell’ultimo Leopardi. La ginestra, o fiore del deserto, cresce alle falde del Vesuvio, sulla roccia: la colata lavica travolge, soffoca la ginestra; non di meno il suo profumo continua a permeare di sè le convalli. La condizione umana è equiparata alla condizione della ginestra: l’uomo viene travolto dalla vita, dalla natura, non di meno non rinnega determinati valori.
De Sanctis, nel suo saggio “Shopenauer e Leopardi”, distingue lo sterile pessimismo del filosofo tedesco dalla alta concezione della vita del poeta di Recanati, e osserva che Leopardi produce un effetto contrario a quello che si propone: non crede nel progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare; chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto; è scettico, e ti fa credente”.
Sempre a proposito del Leopardi il De Sanctis scrive: “La vita non appartiene all’intelletto, ma alla volontà e alla fantasia, per cui l’uomo vive e vuol vivere anche quando la ragione gli dimostri la vanità del tutto.” Se noi seguissimo le conclusioni della ragione, la vita non varrebbe la pena di essere vissuta; a rigor di logica l’amore non esiste, la libertà è un “flatus voci”, Dio non esiste, la patria è una parola vuota di significato. Però l’uomo ha bisogno della patria, della libertà, dell’amore.
Se il Foscolo ricostruisce col sentimento la via incenerita dalla ragione illuministica (elaborando la teoria delle illusioni), il Leopardi ricostruisce la via distrutta dalla ragione facendo leva sulla volontà -in primis-, sulla fantasia, e sul sentimento. L’uomo vuole continuare a vivere (disperatamente) anche quando la razionalità gli mostri l’inconsistenza dell’esistenza, stimolato dalla volontà -spirito di conservazione e “amor sui”, istinto “animalesco” che tiene in vita l’uomo e che è il più duro a morire- e dalla fantasia, che gli permette di reinventare la vita.
In questo modo il Leopardi afferma la dignità umana pur nella sofferenza. Tale posizione lo avvicina a Blaise Pascal: l’uomo che ha coscienza del proprio dolore universale è più grande, più nobile della natura che lo perseguita senza una causa; la coscienza della propria miseria è già segno di grandezza.

1 commento:

Anonimo ha detto...

ciao ste ho trovato l uniko modo x scriverti...fatti sentire ogni tnt x farmi sapere km va...1 bacio lisa