venerdì 29 agosto 2008
Donne conformiste
Chi ama il bondage non è anormale. I ricercatori della università del Nuovo Galles del Sud (Australia) confermano quanto temevo. Il bdsm ha perso via via ogni aura di maledizione, passando dal crimine sadiano alla malattia di Sacher-Masoch al glamour estremo di Helmut Newton fino all’odierno sessualmente corretto. Quando il confine della differenza si sposta troppo avanti, tocca tornare indietro. Sarebbe il momento di regalare la propria collezione di frustini all’amico cavallerizzo, e di cospargere il corpo delle amanti di petali di rose. Purtroppo le donne sono conformiste, adorano essere frustate.
Camillo Langone
Camillo Langone
O protagonisti o nessuno
Non è sempre facile, così da lontano, capire che cosa voglia dire il titolo del Meeting di Rimini. "O protagonisti o nessuno". C'è il motto di uno che non aveva messo abbastanza in conto la fortuna: Aut Ceasar aut nullus. Poi quel modo di insultare il prossimo dicendogli: "Non sei nessuno!". E trovo in rete che pronunciare questa frase nei confronti di un'altra persona è un reato: sentenza del Tribunale di Trieste, confermata dalla Cassazione. Brava Cassazione: l'aveva detto un automobilista a un parcheggiatore. Motivazione: "La frase 'tu non sei nessuno' significa precisamente affermare che una persona è una nullità e, per la coscienza comune è certamente offensivo, perché lesivo del decoro di una persona, ovvero della dignità fisica, sociale ed intellettuale… Tutti noi esistiamo e pertanto siamo qualcuno". (Il nome del condannato, fornito solo abbreviato, è suggestivo: Giulio C.). Poi mi viene in mente Odisseo, naturalmente, e l'inganno del povero Polifemo. Dio ha scelto quelli che non sono "nessuno", per dare una lezione a chi si crede "chissà chi": così una parafrasi della prima lettera di san Paolo ai Corinzi. Ho letto il testo di don Giussani dal quale il motto riminese è ispirato. Vi si dice che "il protagonista della storia è il mendicante". Il mendicante, quando faccia l'incontro giusto, sa riconoscerlo. Spero che don Giussani non immaginasse l'attualità stretta di questa figura. E il grigio cielo di quest'anno risparmi ai mendicanti di Rimini i cattivi incontri.
Adriano Sofri
Adriano Sofri
martedì 26 agosto 2008
Ragazzina benedetta
Festeggio con tutto il cuore la ragazzina imbottita di esplosivo che a Baquba ha trovato il modo di attirare su sé l'attenzione della polizia, rifiutandosi così in extremis all'attentato suicida cui era stata condotta da sua madre. Quella benedetta ragazzina, bella da vedere mentre scherzava coi militari con una faccia timida da liberata, ha salvato se stessa, qualche decina di persone ignare, e sua madre, che non glielo perdonerà mai. Non le perdonerà mai di doverle la vita, dopo avergliela data, e averne progettato una così redditizia conclusione. Sua madre appartiene tristamente alla più orrenda mutazione della specie umana: la figlia mostra che c'è una possibilità di ritorno dalla pazzia. Se l'attentato fosse riuscito -come altri ieri a Bagdad, come gli ormai innumerati che insanguinano ogni giorno il mondo, sempre più vasti e tronfi- avrebbe preso un trafiletto nelle pagine interne. Prenda, se la storia è andata così, il più onorato e affettuoso degli spazi.
Adriano Sofri
Adriano Sofri
La Venere imbarazzata
Donna nella Cozza, come sei stata chiamata da una signora che si stava lamentando coi custodi per il divieto di mangiare nella tua sala degli Uffizi il suo panino (episodio riportato dalla Nazione), adesso sai perché non sono mai venuto a trovarti. Non mi reggerebbe il cuore a vedere trattata in questo modo la Venere di Botticelli ("Migliaia di persone fra cui molte in canottiera e pantaloncini, infradito ai piedi e mani che toccano tutto, anche tele e cornici, mentre scattano vietatissime foto con il flash, immortalandosi, denudandosi il petto per una foto ricordo" ha scritto al quotidiano fiorentino un rappresentante del personale). Tu che ti copristi il seno e il pube perfino davanti a Lorenzo di Pierfrancesco, collezionista e poeta, il Medici che ti commissionò, chissà come ti senti oggi, mostrata quattordici ore al giorno a gente che ti confonde con la cameriera che porta l'impepata nel ristorante-pizzeria. Vorrei vestirti, nasconderti, salvarti da quella oscena situazione, ma non mi è possibile e allora prometto che continuerò a non guardarti, per non causarti imbarazzo ulteriore.
Camillo Langone
Camillo Langone
venerdì 22 agosto 2008
Pessimismi di scuola
Un vecchio tema sulle fasi del pessimismo in Leopardi, di dieci anni fa. Lo posto per fare databas, anche se avevo ricevuto giuste critiche sul suo essere "troppo scolastico". Mi sa che era piaciuto solo a professore.
E’ il Leopardi stesso, nello Zibaldone e nelle lettere inviate al Giordani, a tracciare il suo percorso artistico e l’evoluzione del suo pensiero: il primo momento è quello dell’erudizione (“furono sette anni di studio matto e disperatissimo”); nel 1816 avviene la “conversione al bello”, alla poesia- Leopardi compone i “Primi Idilli”- ; del 1819 è, infine, la “conversione al vero”, alla filosofia- con le “Operette morali”-.
La concezione del mondo e della vita del Leopardi è pessimistica: il suo pessimismo nasce dal contrasto tra realtà e ideale. E’ stato notato da alcuni critici che quando il conflitto tra ragione e cuore è autenticamente e particolarmente sentito, il Leopardi tocca le vette più alte della poesia; la vera poesia leopardiana nasce dall’acuirsi del dissidio tra razionalità e sentimento.
Il pessimismo di Giacomo Leopardi attraversa diversi momenti, e subisce una significativa evoluzione.
Il pessimismo storico, che caratterizza la prima fase del pensiero leopardiano, quella che va dalla conversione al “bello” fino al 1824, anno della composizione della maggior parte delle “Operette morali”, è di matrice rousseauviana. Il pessimismo è definito storico perché riferito alla storia: l’uomo, evolvendosi, si è allontanato dallo stato di natura, dove viveva “semifelice”, in una sorta di armonia mistica con la natura, per entrare nella civiltà, in cui la ragione lo ha corrotto.
Il Leopardi inizialmente crede, come Rousseau, che la natura possa rispondere a tutte le esigenze dell’individuo. Nel momento in cui l’uomo viene sradicato dal suo “habitat”, avviene il processo di alienazione. L’inserimento nella società corrompe l’individuo. L’infelicità è considerata, dunque, opera degli uomini, che hanno perduto il “linguaggio della natura” sotto il dominio della ragione. La natura è concepita come una “madre” provvida e benevola.
Già prima del 1816, però, Leopardi aveva constatato la propria angoscia individuale e si era convinto di essere destinato alla sofferenza (senso del pessimismo individuale, che si può riscontrare ne “Il passero solitario”). Già nel suo “tempo migliore”, nella “novella età”, il Leopardi si sente l’unico infelice, mentre ritiene gli altri felici – “Tutta vestita a festa la gioventù del loco lascia le case e per le vie si spande, e mira ed è mirata, e in cor s’allegra…Io..ogni sollazzo..indugio in altro tempo”-.
In seguito, però, il Leopardi passa alla formulazione del pessimismo universale, evidente, ad esempio, in “A Silvia”. Il poeta comprende che tutta l’umanità è infelice, per cui, da un sentimento di invidia, quasi, o di astio nei confronti del prossimo, passa ad una forma di comprensione.
Silvia rappresenta le speranze della giovinezza che nell’impatto con l’ “arido vero” si frantumano. La natura, allora, non è “benigna”, ma “matrigna”, è una forza fredda, insensibile, indifferente nei confronti dell’uomo. Il Leopardi, dopo il 1823, attribuisce la causa dell’infelicità umana alla natura, natura che non mantiene le promesse (“O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?”). Con il “Dialogo della Natura e un Islandese” (appartenente alle “Operette morali”) e con il “Canto notturno” il Leopardi approda al cosiddetto pessimismo cosmico: tutti gli uomini, tutti gli animali, tutti i regni, i globi, i sistemi, i mondi mostrano uno stato di “souffrance”, l’infelicità si riscontra in tutte le forme di vita esistenti al mondo. L’uomo, come tutti gli altri esseri viventi, nasce al solo scopo di morire: l’esistenza dell’universo ha come suo unico scopo la propria conservazione attraverso un perpetuo ciclo di produzione–distruzione, che ha come necessaria conseguenza la sofferenza degli individui. La natura non è, propriamente, ostile, ma indifferente ai bisogni dell’uomo.
Come Lucrezio afferma che ogni creatura patisce gli scacchi della natura (basti citare “Il dolore della giovenca”), così il Leopardi si accorge che ogni creatura mostra uno stato di “souffrance” (è sufficiente leggere “Il giardino del male”).
Questo coerente e rigoroso materialismo porta il poeta a constatare che “in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”.
Ma nell’ultima fase della sua riflessione il Leopardi, proprio movendo da una visione radicalmente negativa dell’universo e dell’esistenza umana, approda non già ad una forma di nichilismo, ma ad una “utopia solidaristica”, ad un invito a tutti gli uomini affinché si consocino per combattere la malignità della natura. La coscienza del comune male e del comune nemico dovrebbe affratellare gli uomini e destare in loro un senso di “caritas” nei confronti dell’umanità, condannata alla sofferenza, vittima dell’ostilità, sebbene inconsapevole, della natura (“La ginestra”).
Il Leopardi è stato spesso accostato a Shopenauer per il senso angoscioso e doloroso dell’esistenza. Ma il pessimismo di Shopenauer sfocia in una sorta di rinuncia alla lotta, in una forma di atarassia, aponia di epicurea memoria. Shopenauer perviene ad una sorta di fatalismo, di rassegnazione. L’ultimo stadio del pessimismo leopardiano, invece, può essere definito “agonistico”, o attivo, il Leopardi lotta anche quando sa che la battaglia è perduta in partenza. Dopo il 1823 il Leopardi non esclude la lotta: è un pessimismo eroico, che sfocia nel titanismo, in un nuovo atteggiamento etico, in un impegno morale, in un invito alla solidarietà degli uomini contro la comune “inimica”, la natura.
“La ginestra” è la summa della poesia e della meditazione dell’ultimo Leopardi. La ginestra, o fiore del deserto, cresce alle falde del Vesuvio, sulla roccia: la colata lavica travolge, soffoca la ginestra; non di meno il suo profumo continua a permeare di sè le convalli. La condizione umana è equiparata alla condizione della ginestra: l’uomo viene travolto dalla vita, dalla natura, non di meno non rinnega determinati valori.
De Sanctis, nel suo saggio “Shopenauer e Leopardi”, distingue lo sterile pessimismo del filosofo tedesco dalla alta concezione della vita del poeta di Recanati, e osserva che Leopardi produce un effetto contrario a quello che si propone: non crede nel progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare; chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto; è scettico, e ti fa credente”.
Sempre a proposito del Leopardi il De Sanctis scrive: “La vita non appartiene all’intelletto, ma alla volontà e alla fantasia, per cui l’uomo vive e vuol vivere anche quando la ragione gli dimostri la vanità del tutto.” Se noi seguissimo le conclusioni della ragione, la vita non varrebbe la pena di essere vissuta; a rigor di logica l’amore non esiste, la libertà è un “flatus voci”, Dio non esiste, la patria è una parola vuota di significato. Però l’uomo ha bisogno della patria, della libertà, dell’amore.
Se il Foscolo ricostruisce col sentimento la via incenerita dalla ragione illuministica (elaborando la teoria delle illusioni), il Leopardi ricostruisce la via distrutta dalla ragione facendo leva sulla volontà -in primis-, sulla fantasia, e sul sentimento. L’uomo vuole continuare a vivere (disperatamente) anche quando la razionalità gli mostri l’inconsistenza dell’esistenza, stimolato dalla volontà -spirito di conservazione e “amor sui”, istinto “animalesco” che tiene in vita l’uomo e che è il più duro a morire- e dalla fantasia, che gli permette di reinventare la vita.
In questo modo il Leopardi afferma la dignità umana pur nella sofferenza. Tale posizione lo avvicina a Blaise Pascal: l’uomo che ha coscienza del proprio dolore universale è più grande, più nobile della natura che lo perseguita senza una causa; la coscienza della propria miseria è già segno di grandezza.
E’ il Leopardi stesso, nello Zibaldone e nelle lettere inviate al Giordani, a tracciare il suo percorso artistico e l’evoluzione del suo pensiero: il primo momento è quello dell’erudizione (“furono sette anni di studio matto e disperatissimo”); nel 1816 avviene la “conversione al bello”, alla poesia- Leopardi compone i “Primi Idilli”- ; del 1819 è, infine, la “conversione al vero”, alla filosofia- con le “Operette morali”-.
La concezione del mondo e della vita del Leopardi è pessimistica: il suo pessimismo nasce dal contrasto tra realtà e ideale. E’ stato notato da alcuni critici che quando il conflitto tra ragione e cuore è autenticamente e particolarmente sentito, il Leopardi tocca le vette più alte della poesia; la vera poesia leopardiana nasce dall’acuirsi del dissidio tra razionalità e sentimento.
Il pessimismo di Giacomo Leopardi attraversa diversi momenti, e subisce una significativa evoluzione.
Il pessimismo storico, che caratterizza la prima fase del pensiero leopardiano, quella che va dalla conversione al “bello” fino al 1824, anno della composizione della maggior parte delle “Operette morali”, è di matrice rousseauviana. Il pessimismo è definito storico perché riferito alla storia: l’uomo, evolvendosi, si è allontanato dallo stato di natura, dove viveva “semifelice”, in una sorta di armonia mistica con la natura, per entrare nella civiltà, in cui la ragione lo ha corrotto.
Il Leopardi inizialmente crede, come Rousseau, che la natura possa rispondere a tutte le esigenze dell’individuo. Nel momento in cui l’uomo viene sradicato dal suo “habitat”, avviene il processo di alienazione. L’inserimento nella società corrompe l’individuo. L’infelicità è considerata, dunque, opera degli uomini, che hanno perduto il “linguaggio della natura” sotto il dominio della ragione. La natura è concepita come una “madre” provvida e benevola.
Già prima del 1816, però, Leopardi aveva constatato la propria angoscia individuale e si era convinto di essere destinato alla sofferenza (senso del pessimismo individuale, che si può riscontrare ne “Il passero solitario”). Già nel suo “tempo migliore”, nella “novella età”, il Leopardi si sente l’unico infelice, mentre ritiene gli altri felici – “Tutta vestita a festa la gioventù del loco lascia le case e per le vie si spande, e mira ed è mirata, e in cor s’allegra…Io..ogni sollazzo..indugio in altro tempo”-.
In seguito, però, il Leopardi passa alla formulazione del pessimismo universale, evidente, ad esempio, in “A Silvia”. Il poeta comprende che tutta l’umanità è infelice, per cui, da un sentimento di invidia, quasi, o di astio nei confronti del prossimo, passa ad una forma di comprensione.
Silvia rappresenta le speranze della giovinezza che nell’impatto con l’ “arido vero” si frantumano. La natura, allora, non è “benigna”, ma “matrigna”, è una forza fredda, insensibile, indifferente nei confronti dell’uomo. Il Leopardi, dopo il 1823, attribuisce la causa dell’infelicità umana alla natura, natura che non mantiene le promesse (“O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?”). Con il “Dialogo della Natura e un Islandese” (appartenente alle “Operette morali”) e con il “Canto notturno” il Leopardi approda al cosiddetto pessimismo cosmico: tutti gli uomini, tutti gli animali, tutti i regni, i globi, i sistemi, i mondi mostrano uno stato di “souffrance”, l’infelicità si riscontra in tutte le forme di vita esistenti al mondo. L’uomo, come tutti gli altri esseri viventi, nasce al solo scopo di morire: l’esistenza dell’universo ha come suo unico scopo la propria conservazione attraverso un perpetuo ciclo di produzione–distruzione, che ha come necessaria conseguenza la sofferenza degli individui. La natura non è, propriamente, ostile, ma indifferente ai bisogni dell’uomo.
Come Lucrezio afferma che ogni creatura patisce gli scacchi della natura (basti citare “Il dolore della giovenca”), così il Leopardi si accorge che ogni creatura mostra uno stato di “souffrance” (è sufficiente leggere “Il giardino del male”).
Questo coerente e rigoroso materialismo porta il poeta a constatare che “in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”.
Ma nell’ultima fase della sua riflessione il Leopardi, proprio movendo da una visione radicalmente negativa dell’universo e dell’esistenza umana, approda non già ad una forma di nichilismo, ma ad una “utopia solidaristica”, ad un invito a tutti gli uomini affinché si consocino per combattere la malignità della natura. La coscienza del comune male e del comune nemico dovrebbe affratellare gli uomini e destare in loro un senso di “caritas” nei confronti dell’umanità, condannata alla sofferenza, vittima dell’ostilità, sebbene inconsapevole, della natura (“La ginestra”).
Il Leopardi è stato spesso accostato a Shopenauer per il senso angoscioso e doloroso dell’esistenza. Ma il pessimismo di Shopenauer sfocia in una sorta di rinuncia alla lotta, in una forma di atarassia, aponia di epicurea memoria. Shopenauer perviene ad una sorta di fatalismo, di rassegnazione. L’ultimo stadio del pessimismo leopardiano, invece, può essere definito “agonistico”, o attivo, il Leopardi lotta anche quando sa che la battaglia è perduta in partenza. Dopo il 1823 il Leopardi non esclude la lotta: è un pessimismo eroico, che sfocia nel titanismo, in un nuovo atteggiamento etico, in un impegno morale, in un invito alla solidarietà degli uomini contro la comune “inimica”, la natura.
“La ginestra” è la summa della poesia e della meditazione dell’ultimo Leopardi. La ginestra, o fiore del deserto, cresce alle falde del Vesuvio, sulla roccia: la colata lavica travolge, soffoca la ginestra; non di meno il suo profumo continua a permeare di sè le convalli. La condizione umana è equiparata alla condizione della ginestra: l’uomo viene travolto dalla vita, dalla natura, non di meno non rinnega determinati valori.
De Sanctis, nel suo saggio “Shopenauer e Leopardi”, distingue lo sterile pessimismo del filosofo tedesco dalla alta concezione della vita del poeta di Recanati, e osserva che Leopardi produce un effetto contrario a quello che si propone: non crede nel progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare; chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto; è scettico, e ti fa credente”.
Sempre a proposito del Leopardi il De Sanctis scrive: “La vita non appartiene all’intelletto, ma alla volontà e alla fantasia, per cui l’uomo vive e vuol vivere anche quando la ragione gli dimostri la vanità del tutto.” Se noi seguissimo le conclusioni della ragione, la vita non varrebbe la pena di essere vissuta; a rigor di logica l’amore non esiste, la libertà è un “flatus voci”, Dio non esiste, la patria è una parola vuota di significato. Però l’uomo ha bisogno della patria, della libertà, dell’amore.
Se il Foscolo ricostruisce col sentimento la via incenerita dalla ragione illuministica (elaborando la teoria delle illusioni), il Leopardi ricostruisce la via distrutta dalla ragione facendo leva sulla volontà -in primis-, sulla fantasia, e sul sentimento. L’uomo vuole continuare a vivere (disperatamente) anche quando la razionalità gli mostri l’inconsistenza dell’esistenza, stimolato dalla volontà -spirito di conservazione e “amor sui”, istinto “animalesco” che tiene in vita l’uomo e che è il più duro a morire- e dalla fantasia, che gli permette di reinventare la vita.
In questo modo il Leopardi afferma la dignità umana pur nella sofferenza. Tale posizione lo avvicina a Blaise Pascal: l’uomo che ha coscienza del proprio dolore universale è più grande, più nobile della natura che lo perseguita senza una causa; la coscienza della propria miseria è già segno di grandezza.
mercoledì 20 agosto 2008
Egemonie senza forchetta
Non so se è un discorso da bar (effettivamente eravamo al bar) ma mi diceva il mio professore di fisica che tre elementi distinguono una civiltà egemone, ossia il popolo che detta legge nel mondo: supremazia nella conoscenza (scienza e tecnologia); produzione di beni industriali e diffusione di servizi; disponibilità economiche-finanziarie. Sembra che la Cina abbia già sorpassato gli USA nei primi due aspetti. Appena avranno anche le banche mangeremo con le bacchette? Mi vado a comprare una grammatica di cinese intanto.
La storia delle cose
Video con la solita su multinazionali cattive e sostenibilità. Molto 2.0, molto no-global, molto approssimativo. Ma a molti piacerà.
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sabato 16 agosto 2008
venerdì 15 agosto 2008
Dormizione
Visto che oggi si festeggia la dormizione di Maria, volgiamo ad ella la nostra preghiera by Langone.
Assunta che sali fra le nuvole, guarda giù verso di noi, che non siamo attorniati dai cherubini. Cristina mi racconta che l’altra mattina, passando in autobus davanti all’edicola mariana di via delle Torri (Firenze), per essersi fatta il segno della croce è stata guardata male da due donne musulmane. Il segno della croce è un esorcismo e perciò risulta sgradito a maomettani, streghe, comunisti cinesi e dirigenti del comitato olimpico internazionale. Noi però lo facciamo lo stesso per far diventare il mondo una pala di Tiziano.
Assunta che sali fra le nuvole, guarda giù verso di noi, che non siamo attorniati dai cherubini. Cristina mi racconta che l’altra mattina, passando in autobus davanti all’edicola mariana di via delle Torri (Firenze), per essersi fatta il segno della croce è stata guardata male da due donne musulmane. Il segno della croce è un esorcismo e perciò risulta sgradito a maomettani, streghe, comunisti cinesi e dirigenti del comitato olimpico internazionale. Noi però lo facciamo lo stesso per far diventare il mondo una pala di Tiziano.
giovedì 14 agosto 2008
Fourhourworkweek
"The 4-Hour Workweek" è un libro di un pazzoide. Ci sono parecchi spunti, link e riferimenti bibliografici, e le pagine sono disseminate di gustosissime citazioni.
Per prendere coscienza della propria condizione personale e professionale, per lavorare meno, per lavorare meglio -effective and efficient-, per aumentare la qualità della vita, per capire che la regola sicura dell'insuccesso è piacere a tutti e sempre, per scoprire alla fine che non ha senso porsi la domanda sul "senso della vita", che l'esistenza è eterno apprendere e che la felicità condivisa in forma di amore ed amicizia è felicità moltiplicata. Molto 2.0. Consigliato caldamente a chi lavora da più di sei mesi.
http://www.fourhourworkweek.com/
Per prendere coscienza della propria condizione personale e professionale, per lavorare meno, per lavorare meglio -effective and efficient-, per aumentare la qualità della vita, per capire che la regola sicura dell'insuccesso è piacere a tutti e sempre, per scoprire alla fine che non ha senso porsi la domanda sul "senso della vita", che l'esistenza è eterno apprendere e che la felicità condivisa in forma di amore ed amicizia è felicità moltiplicata. Molto 2.0. Consigliato caldamente a chi lavora da più di sei mesi.
http://www.fourhourworkweek.com/
mercoledì 13 agosto 2008
Etimologie desiderate
La parola concupiscenza ha a che fare con il verbo concupere e il verbo concupere, della tarda latinità, rimanda a quello assai più fresco e giovanile di cupere. Cupere (da cui Cupido, figlio di Venere) vuol dire semplicemente desiderare. Qui, però, casca il povero asino, perché: da dove viene allora desiderare? Credo che pochi lo sappiano, anche se è facile avvertire nel fondo del comune sentimento linguistico una strana risonanza con parole quali considerare e assiderare, dove si agita e scalpita la radice latina di sidus “astro” o meglio “metallo” (da cui “siderurgia”).
Ed ecco il colpo di scena. Infatti sarete certamente sorpresi nell’apprendere che il verbo italiano desiderare è un prestito dal gergo militare romano. Negli eserciti degli Scipioni, dei Pompei e dei Cesari, organizzatissimi, stando a Polibio, una squadra di tribuni era incaricata di redigere, durante la notte, l’elenco dei soldati che non si presentavano all’appello dopo la fine di una battaglia. Per considerarli morti la prassi imponeva di aspettare il mattino seguente, quando si poteva sigillare l’accaduto nella formula rituale, che recitava testualmente: tot milia militum desiderati sunt. Con questo giro di parole si voleva semplicemente far sapere che quel dato numero di soldati era stato aspettato invano (e con trepidazione) fino al tramonto delle stelle. Appare così finalmente chiara la parentela tra considerare (osservare alla luce delle stelle), assiderare (perdere calore nella notte stellata) e desiderare. Il senso della mancanza e della trepidazione è dunque passato dal gergo militare al linguaggio comune, e indica l’attesa di una cosa che sfugge, e in generale l’impulso che ci porta fuori di noi stessi, con trepidazione e amore per ciò che ci aspetta. Nel termine, come nell’esperienza pratica, è rimasta conficcata la spina di quella attesa trepidante, di quella speranza di veder comparire qualcuno, di quel timore di perdere una percezione segreta della vita, che sono appunto la delizia ma a volte la croce e l’esasperazione del desiderio.
Ed ecco il colpo di scena. Infatti sarete certamente sorpresi nell’apprendere che il verbo italiano desiderare è un prestito dal gergo militare romano. Negli eserciti degli Scipioni, dei Pompei e dei Cesari, organizzatissimi, stando a Polibio, una squadra di tribuni era incaricata di redigere, durante la notte, l’elenco dei soldati che non si presentavano all’appello dopo la fine di una battaglia. Per considerarli morti la prassi imponeva di aspettare il mattino seguente, quando si poteva sigillare l’accaduto nella formula rituale, che recitava testualmente: tot milia militum desiderati sunt. Con questo giro di parole si voleva semplicemente far sapere che quel dato numero di soldati era stato aspettato invano (e con trepidazione) fino al tramonto delle stelle. Appare così finalmente chiara la parentela tra considerare (osservare alla luce delle stelle), assiderare (perdere calore nella notte stellata) e desiderare. Il senso della mancanza e della trepidazione è dunque passato dal gergo militare al linguaggio comune, e indica l’attesa di una cosa che sfugge, e in generale l’impulso che ci porta fuori di noi stessi, con trepidazione e amore per ciò che ci aspetta. Nel termine, come nell’esperienza pratica, è rimasta conficcata la spina di quella attesa trepidante, di quella speranza di veder comparire qualcuno, di quel timore di perdere una percezione segreta della vita, che sono appunto la delizia ma a volte la croce e l’esasperazione del desiderio.
La vita, la riproduzione, il decesso
Non sono un biologo, ma so che chi studia la materia ha scoperto da tempo la presenza nel nostro organismo di sostanze chimiche in qualche modo imparentate con le droghe, le endorfine. Questi stupefacenti naturali ci aiutano ad attraversare momenti difficili o a esaltare quelli piacevoli. La cosa strana è che queste endorfine compaiono sia durante l’orgasmo (e si chiamano “orgasmine”) sia durante l’agonia (e si chiamano “agonine”). A quanto ne so la composizione delle orgasmine e delle agonine è identica. Le prime servono a esaltare il piacere durante l’accoppiamento, le seconde ad attenuare il dolore degli spasimi mortali e a stampare sul volto dei moribondi quell’indefinibile sorriso di riconciliazione con il mondo che si pietrifica poi nell’espressione dei defunti.
Questa parentela chimica ci porta all’origine della materia vivente, della procreazione e della morte, e unifica i tre aspetti della nostra esistenza (vita, riproduzione e decesso).
Questa parentela chimica ci porta all’origine della materia vivente, della procreazione e della morte, e unifica i tre aspetti della nostra esistenza (vita, riproduzione e decesso).
martedì 12 agosto 2008
La vita che nasce
Qualcosa di eccitante, di stupefacente avviene nel mondo degli animali superiori. Ruote di pavone o code di uccelli del paradiso, ali variopinte di farfalle, corna di cervi, silhouette di donne, criniere di leoni, frinire di cicale, geometria colorata di fiori, gorgheggi di uccelli… La natura adorna la sessualità di sovrane bellezze e la compone in una danza gloriosa fatta di esibizioni, volteggi, corteggiamenti, concupiscenze e amplessi. Possiamo credere che tutte queste festose bellezze abbiano per solo scopo la vita coniugale dei batteri e la ricombinazione del DNA? La concupiscenza, che unisce, congiunge e compone le coppie animali è una spropositata espressione della tendenza alla esibizione di specie, una estrema manifestazione dell’aspirazione a possedere e a dominare. Negli umani questa aspirazione può raggiungere l’arte e la poesia, ma può anche manifestarsi nel possesso e nella dissoluzione del partner. Il DNA è il passeggero clandestino di queste effusioni, ma non ne è né la ragione né la spiegazione. In alcune specie inferiori il possesso del compagno si spinge sino al cannibalismo. E’ noto il comportamento della Mantide religiosa femmina che, durante l’amplesso, divora il suo compagno. Meno noto quello di un verme marino lungo un pollice: la Bonellia viridis. In questa specie il maschio è minuscolo, appena un millimetro, e la femmina lo inghiotte nella sua proboscide; lo sistema nelle proprie viscere dove egli diviene un organello sessuale che svolge il solo compito di fornire spermatozoi alle uova della consorte. Queste sono davvero forme di concupiscenza, come dovere per la conservazione della specie. Non immagino i maschietti di queste specie che esclamino “Vive la difference!”.
lunedì 11 agosto 2008
La vita degli altri
"Ho degli amici che sono il massimo della noia: questi amici pensano quello che è giusto pensare; si sono laureati in tempo; votano progressista; nel momento opportuno, cioè dopo i dubbi adolescenziali, si sono convertiti al cattolicesimo; ognuno ha la sua brava bandierina della pace penzolante dal balcone; fanno la spesa equosolidale; a venticinque anni si sono sposati tutti; mangiano biologico, a Natale propongono regali di beneficenza; finanziano Emergency; bevono poco; fumano per niente; eccetera."
La vita è una cosa sporca
“Vita” in tedesco si dice “Leben”; il termine è imparentato con “Bleiben” (“restare”; beleiben = den Leib geben, “dare il corpo”); l’affinità è con il greco “liparein” e, analogamente, con il latino “lippus” (gocciolante); la radice indoeuropea di “lippus” è “leip” (grasso, unto, sudiciume), “seme maschile”. Vita, sporco e attività sessuale sarebbero quindi la stessa cosa.
Sfruttamenti
Basta leggere “Amanti e Regine” per accorgersi di quanto sgomitassero le ragazze d’antan per infilarsi nei letti dei sovrani. Oggi il potere è piuttosto diffuso, anche i funzionari sono piccoli principi, e basta un’apparizione per incominciare una carriera. Ciò è scandaloso? Ma perché? Chi ha stabilito che vendere la bellezza sia più disdicevole che commercializzare lo studio, l’intelligenza, il sudore? Nel 1970 un mucchietto di generose intellettuali femministe ad un convegno desiderava riscattare le prostitute dall’umiliazione e dallo sfruttamento. Dopo tanti bei discorsi, due prostitute conquistarono il palco e gridarono la loro verità: “Chi è più sfruttato, noi che in un quarto d’ora guadagniamo quanto voi in una settimana, oppure le impiegate che al capo devono dare il loro cervello, la loro obbedienza e magari (gratis) qualcos’altro?”. Sull’assemblea calò il silenzio.
Astuzie
Dentro gli involucri delle diverse concupiscenze lavorano meccanismi potentissimi. C’è l’astuzia della Natura, la quale non dimentica mai che far l’amore serve a fare figli. Così anche le donne più imbottite di contraccettivi tenderanno a concupire il leader del loro gruppo, perché (senza saperlo!) desiderano un pargolo che erediti le sue qualità. Dall’altra parte, gli uomini si avventano sconsideratamente su ogni femmina disponibile perché (senza saperlo!) vogliono avere più possibilità di riprodursi, alla rinfusa.
Adulto consenziente
“Adulto consenziente”? Ascoltane il suono. Non sembra anche a te una malattia della ragione? Io ho archiviato l’“adulto consenziente” tra la categoria dell’“anziano incontinente” e quella del “giovane imbecille”.
domenica 10 agosto 2008
Kafka è morto
La nuova era inizia il 29 giugno 2007, giorno di lancio del primo iPhone. L'intellettuale figo è definito non dalla sua cultura umanistica e scientifica, ma dallo smartphone e dai social network che usa.
Il prestigio si trasferisce dai filosofi cantanti scrittori a chi seleziona e recensisce. Per avere status nelle élite culturali, bisogna mostrarsi stufi di cose delle quali gli altri esseri umani nemmeno sospettano l'esistenza. Nell'era 2.0, che significa offerta culturale infinita e infinitamente e ovunquamente e adessamente accessibile, lo studioso che cita Kafka è marziano. Dovrebbe accendere lo smarphone e farsi accompagnare nella scoperta di oscuri scrittori o cantanti di nicchia.
L'intellettuale cool frequenta Facebook non la Divina Commedia.
Il prestigio si trasferisce dai filosofi cantanti scrittori a chi seleziona e recensisce. Per avere status nelle élite culturali, bisogna mostrarsi stufi di cose delle quali gli altri esseri umani nemmeno sospettano l'esistenza. Nell'era 2.0, che significa offerta culturale infinita e infinitamente e ovunquamente e adessamente accessibile, lo studioso che cita Kafka è marziano. Dovrebbe accendere lo smarphone e farsi accompagnare nella scoperta di oscuri scrittori o cantanti di nicchia.
L'intellettuale cool frequenta Facebook non la Divina Commedia.
Estetismi
Per quanto Rossana sia pesante pallosa sfigata, Cirano di Bergerac resta un delicato eppur "possente e schietto" inno alla Poesia. Alla Parola perfetta prima che all'Amore perfetto.
...io son di quelli- lo so, e me ne affanno- che san fare all'amore, ma parlar non ne sanno. (Cristiano a Cirano)
Talvolta il poeta cede al suo stesso incanto! Capisci...quel biglietto era sì commovente che, scrivendolo, io stesso ho pianto veramente. (Cirano a Cristiano)
...io son di quelli- lo so, e me ne affanno- che san fare all'amore, ma parlar non ne sanno. (Cristiano a Cirano)
Talvolta il poeta cede al suo stesso incanto! Capisci...quel biglietto era sì commovente che, scrivendolo, io stesso ho pianto veramente. (Cirano a Cristiano)
Un paio di neologismi
S'arimpecorellisce: in cielo si formano di nuovo nubi a pecorelle. Verbo riflessivo, impersonale, iterativo.
Essere alleprato: stare all'erta, sveglio e tenendo gli occhi ben aperti, come la lepre. Essere allupato è un'altra cosa.
Essere alleprato: stare all'erta, sveglio e tenendo gli occhi ben aperti, come la lepre. Essere allupato è un'altra cosa.
venerdì 8 agosto 2008
Ma vaffanculo
Quando il bimbetto, che adesso ha cinque anni, sarà cresciuto. Quando verrà a sapere che in un afoso giorno d’agosto del 2008, mentre si trovava al centro estivo “Pierina Boranga” di Padova, gli venne l’idea di chiudersi a chiave in una stanza con degli altri bimbetti come lui, e la maestra allora si preoccupò, e disse loro di aprire la porta, e loro non aprivano, e rimanevano chiusi dentro, e la maestra fuori a ripetere: “Aprite!”, e loro niente, e quella a supplicare, e loro niente, e aprirono dopo un bel po’, e la maestra, a quel punto, mollò uno sculaccione al primo che capitava. Che era lui. Quando il bimbetto, ormai cresciuto, verrà a sapere che la mamma ha radunato immediatamente le altre mamme, e nonne, e parentele, le quali tutte insieme andarono a denunciare la maestra ai carabinieri per violenza privata, facendola licenziare, ebbene, noi che siamo inguaribili ottimisti, siamo certi che il giovanotto convocherà la mamma e le sussurrerà, affettuoso: “Ma vaffanculo!”.
mercoledì 6 agosto 2008
Concupiscenze
Mi sono assunto il compito di testimoniare in partibus infidelium la possibilità di essere nel contempo cattolici e concupiscenti. Di più: di essere cattolici e concupiscenti senza particolari problemi, senza soverchie macerazioni. Di più e di più ancora: senza particolari problemi e senza soverchie macerazioni proprio in quanto cattolici. Penso che sia una testimonianza necessaria in un mondo diviso tra perfettismo e nichilismo. Penso che ogni uomo abbia una dose limitata di intransigenza: è pericoloso sprecarla per i dettagli, quando serve davvero si rischia di scoprire che è finita. Lo stesso per qualsiasi altra virtù. La storia e l’esperienza quotidiana insegnano che spesso i vegetariani cominciano e finiscono a tavola la loro dose di bontà. Io mangio carne cruda di cavallo sia perché mi piace sia per essere più mite con i non equini. L’espressione “morale cattolica” mi fa venire in mente un vecchio libro di Alessandro Manzoni, che immagino non legga più nessuno e una volta tanto l’oblio di un testo è un bene, l’idea ricevuta del cristianesimo come morale è già troppo diffusa. E’ svilente, insultante pensare che Gesù si sia fatto inchiodare a una croce per impedirci di rubare la marmellata o di toccarci il pisello. E’ molto anni Cinquanta, anche.
Summa iniuria
"E’ proprio di un legislatore sapiente permettere le trasgressioni più piccole per evitarne di più grandi”. San Tommaso
Il vizioso
Secondo l’ordine della ragione, per Tommaso d’Aquino, l’istinto sessuale non è un male necessario, ma un bene. Anzi la completa, radicale insensibilità a ogni genere di emozioni sessuali, che parecchi vorrebbero ritenere “vero” ideale e perfezione della vita cristiana, viene giudicata nella “Summa Theologiae” non solo difetto, ma un vizio vero e proprio.
Di che ti lamenti?
La notizia l’ho letta in ritardo, ma scusa un po’, caro popolo italiano. La giustizia non funziona, le pensioni sono quello che sono, il corridoio 5 per restare aggrappati all’Europa è lento come una lumaca, la riforma della scuola resta ancora incerta, abbiamo gli atleti drogati, le Grandi opere si vedono e non si vedono, è tutto vero. E sarà vero anche di più. Sarà vero pure che la comunità internazionale non ci ascolta abbastanza, che abbiamo messo il reggipetto a Tiepolo, che le leggi sull’immigrazione, o sulla sanità, o sul fumo, non marciano a dovere, che la famiglia non è abbastanza tutelata, sarà vero perfino che gli stadi sono vecchi, i musei abbandonati, il cinema italiano è in crisi, e che il famoso poliziotto di quartiere è stato sostituito da un parà. Sarà tutto vero, caro popolo italiano. Ma se tu, al 57 per cento, come ho letto, preferisci ancora Luca Cordero di Montezemolo, me lo dici di che cacchio ti lamenti?
martedì 5 agosto 2008
Corteggiamenti
Il corteggiamento, lungo e fantasioso, è l'unico antidoto finora conosciuto al sospetto che gli uomini scopino per default. "Basta che respirino", dice la saggezza popolare italofona. "Toutes qui bougent, sauf les pendules", conferma la saggezza popolare francofona. Nel linguaggio di Hollywood, è lo scambio di "Harry, ti presento Sally…". Spiega Harry: "Un uomo non può essere amico di una donna perché di solito se la vuole scopare". Chiede Sally: "Ma allora un uomo può essere amico solo di una donna brutta?" "No, di solito vuole farsi anche quella", risponde lui, in un attacco di sincerità. Per questo bisognerebbe salvare il corteggiamento dall'estinzione. Lasciando stare i panda, che non interessano a nessuno.
lunedì 4 agosto 2008
Contesti
Certi stupri in certi paesi del nord Italia, magari lungolago, certi furti, certe bravate o certe morti per droga e alcol il sabato sera sarebbero non giustificate ma almeno comprese se uno passasse qui una serata un lunedì di agosto, diciamo stasera. Figuriamoci d'inverno.
And yet I fight / This battle all alone / No one to cry to / No place to call home
And yet I fight / This battle all alone / No one to cry to / No place to call home
domenica 3 agosto 2008
Stranezze normali
Io sulle prime credevo che fosse una ragazza un po' strana, perchè non avevo esperienza e non sapevo che tutte le ragazze sono strane, o per un verso o per un altro, e se una non è strana allora vuol dire che è ancora più strana delle altre, appunto perchè è fuori quota, non so se mi spiego.
Faussone in La chiave a stella, Primo Levi
Faussone in La chiave a stella, Primo Levi
La chiave a stella
"...forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l'essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo."
Primo Levi
Primo Levi
Robinson Crusoe
Un tipo vestito dalla testa ai piedi di pelli di capra in un clima equatoriale, con un improbabile ombrello di pelliccia; fornitissimo di monete e utensili di ogni tipo, il naufrago inventa attrezzi identici a quelli di casa sua. Più homo bricoleur che homo faber.
Sidney Sonnino
Figlio di un ebreo emigrato in Egitto e di una gallese che non avrebbe mai calpestato il suolo del Regno Unito, unico presidente del Consiglio protestante nella storia della cattolicissima Italia, fu nazionalista intransigente e il più ardente tra i fautori della teoria del "sacro egoismo" per la patria. Ministro degli Esteri, autore dell'inchiesta sul Mezzogiorno e del ritorno allo Statuto albertino, inventore della Banca commerciale e della Terza pagina, era un lavoratore infaticabile e ordinato, taciturno e austero; anche nel fisico sembrava un miscuglio di professore e di pastore protestante. Ogni mattina ringraziava pianamente Dio di averlo fatto diverso da tutti gli altri uomini.
sabato 2 agosto 2008
2 agosto
Il 2 agosto del 1980 alle 10 del mattino faceva caldo a Bologna, e lo zio Paolo stava per uscire di casa per andare ad incassare un pagamento da un suo cliente importante - la Cigar, la società che gestiva il ristorante della stazione, cui lo zio forniva birra - i cui uffici erano al primo piano dell'edificio basso, a sinistra del porticato, guardando il fronte della Stazione Centrale di Bologna. La zia Teresa lo bloccò sulla porta di casa e lo costrinse ad andare a cambiarsi la camicia, che secondo lei vabbè il caldo, ma andava da un ottimo cliente, e conosceva tutte le impiegate da vent'anni, e non poteva andare in giro vestito come un poveretto...Lo zio Paolo obbedì brontolando che così arrivava in ritardo, ma obbedì. Scese giù dal secondo piano in via San Felice, prese quasi subito il bus sottocasa che lo portò diretto in stazione. Arrivò che la polvere non aveva ancora cominciato a posarsi. L'ufficio della Cigar non c'era più.Le impiegate che conosceva da vent'anni non c'erano più. Arrivavano tutti, pompieri, polizia, televisione.Lui tornò a casa, entrò, andò in cucina e si sedette al tavolo. La zia aveva, stranamente, la radio spenta, e stava finendo di stirare. "Accendi la radio", le disse.
venerdì 1 agosto 2008
"Peso" o "di peso"?
Una giornalista di Pescara, ex blogger, davvero brava, mi dice che il mio blog è un po' "peso". Immagino voglia dire pesante. Siccome me l'ha detto una giornalista, siccome è un'ottima blogger, e siccome è soprattutto una ragazza, vedrò di rendere tutto più easy. Leggero, non peso ma di peso.
Sono solo canzonette
Ho da qualche tempo in testa una battuta, che mi piace molto, e non mi ricordo di chi è. Tanto che ho cominciato a raccontarmi di averla inventata io, ma so che non è vero. La battuta è questa: gli chefs sono gli stilisti di oggi. Mi piace perché sintetizza, con un riferimento diretto a un giudizio assai condiviso sulla sopravvalutazione mediatica e salottiera della "moda", un desiderio per la restituzione a dovuta misura delle cose che riguardano il cibo e la cucina e della loro enfatizzazione salottiera e mediatica. Mi spiego.
Da molte cose belle e interessanti - la musica, la letteratura, la cioccolata, le cravatte, la storia medievale, internet - sono spesso tenuti alla larga i curiosi e i potenziali appassionati da un atteggiamento che si diffonde credo in tutti i campi di possibile passione: siano Star Trek o Percy Shelley. Parlo della creazione di comunità elitarie, ostili, presuntuose, che mettono a sentinella della loro pretesa priorità gerghi e cerimonie sproporzionati, infantili e spesso ridicoli. Credere che poiché si è particolarmente esperti o appassionati di qualcosa se ne sia in qualche modo possessori e se ne debba essere gelosi, è comprensibile e umano, ma come molte cose umane, un po' ridicolo. Le cose sono di tutti, che si tratti della propria città, di Bob Dylan o dei canederli. E sprezzare il ridicolo nascondendolo dietro apparecchi di sproporzionata solennità, peggiora le cose. Prendo come esempio evidente un campo che conosco, e su cui non escludo io stesso di tentennare a volte verso modi di questo genere, fuggendone con vergogna quando me ne accorgo: la musica. Chiunque abbia mai sfogliato un qualsiasi giornale che si occupa di musica, o anche solo la sezione relativa dei giornali generalisti, sa a quali vette di letteratura enfatica sappiano arrivare i critici musicali. E tutti conoscono il fanatico senso di possesso nei confronti dei musicisti che ammala i fans anche più piantati per terra e che li porta per esempio a pensare di avere maggiori diritti su John Lennon, Kurt Cobain o Giorgio Gaber di quanti ne avessero le rispettive amate spose. Grazie al cielo, tutto questo fu almeno messo definitivamente in ridicolo dalla fulminante frase di Enzo Jannacci: trattasi di canzonette. Una delle battute più conclusive e significative della storia: perché non sostiene che quel di cui si parla non abbia nessuna importanza – le canzonette sono importantissime – ma gli attribuisce la dovutissima misura e normalità.
Luca Sofri
Da molte cose belle e interessanti - la musica, la letteratura, la cioccolata, le cravatte, la storia medievale, internet - sono spesso tenuti alla larga i curiosi e i potenziali appassionati da un atteggiamento che si diffonde credo in tutti i campi di possibile passione: siano Star Trek o Percy Shelley. Parlo della creazione di comunità elitarie, ostili, presuntuose, che mettono a sentinella della loro pretesa priorità gerghi e cerimonie sproporzionati, infantili e spesso ridicoli. Credere che poiché si è particolarmente esperti o appassionati di qualcosa se ne sia in qualche modo possessori e se ne debba essere gelosi, è comprensibile e umano, ma come molte cose umane, un po' ridicolo. Le cose sono di tutti, che si tratti della propria città, di Bob Dylan o dei canederli. E sprezzare il ridicolo nascondendolo dietro apparecchi di sproporzionata solennità, peggiora le cose. Prendo come esempio evidente un campo che conosco, e su cui non escludo io stesso di tentennare a volte verso modi di questo genere, fuggendone con vergogna quando me ne accorgo: la musica. Chiunque abbia mai sfogliato un qualsiasi giornale che si occupa di musica, o anche solo la sezione relativa dei giornali generalisti, sa a quali vette di letteratura enfatica sappiano arrivare i critici musicali. E tutti conoscono il fanatico senso di possesso nei confronti dei musicisti che ammala i fans anche più piantati per terra e che li porta per esempio a pensare di avere maggiori diritti su John Lennon, Kurt Cobain o Giorgio Gaber di quanti ne avessero le rispettive amate spose. Grazie al cielo, tutto questo fu almeno messo definitivamente in ridicolo dalla fulminante frase di Enzo Jannacci: trattasi di canzonette. Una delle battute più conclusive e significative della storia: perché non sostiene che quel di cui si parla non abbia nessuna importanza – le canzonette sono importantissime – ma gli attribuisce la dovutissima misura e normalità.
Luca Sofri
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