mercoledì 21 novembre 2007

Certezze relativistiche

C'è una sola cosa di cui un professore può essere assolutamente certo: quasi tutti gli studenti che entrano nelle università credono, o dicono di credere, che la verità è relativa. Che diritto ho io o chiunque altro, si chiedono, di dire che una cosa è meglio di un'altra? Se faccio loro le domande di routine, studiate per confutarli e farli pensare, per esempio: "Se tu fossi stato un amministratore inglese in India, avresti permesso agli indigeni sotto la tua giurisdizione di bruciare la vedova al funerale di un uomo che era morto?" tacciono oppure rispondono che, in primo luogo, gli inglesi non avrebbero dovuto trovarsi là.
Tratto da The Closing of American Mind di Allan Bloom. Capoverso che ti fa pensare a quanto è facile e difficile allo stesso tempo essere relativisti. Il relativismo lo vedo sempre accompagnato da un concetto modernista e falso-progressista di Modernità. Lo vedo come una non-teoria, sbilanciata troppo dalla parte del “pensamo (dunque famo) come ce pare” rispetto ad un’etica positiva e propositiva. L’implementazione a lungo termine del relativismo è l’anarchia bellicosa, non la pace tra i popoli. Ovviamente partendo dal postulato che l’uomo di natura non è buono. Infatti.

Ma il gioco più interessante è quello di cercare di comprendere fin dove arriva il relativismo dei relativisti, e, immediatamente dopo, immaginare quale potrebbe diventare tra qualche tempo il limite della Modernità. Dove si ferma ora l’etica moderna? Dove si arresterà tra dieci anni? E tra cento? Il discorso è appassionante. Ad esempio. L’ipotetica tribù centro-asiatica degli “Avanti” non permette alle donne della tribù di parlare in pubblico o mostrare il viso. Un relativista potrebbe liquidare tale etica con la giustificazione dell’usanza, della cultura, della caratteristica di un popolo. Decine di chilometri più in là esiste un’altra fantomatica tribù, gli “Avantissimi”, in cui vige uno ius primae noctis rinnovato, in cui si fa correntemente sesso con gli animali, in cui si pratica l’infibulazione per motivi religiosi, in cui tutti i vecchi e i bambini malati non si curano ma si uccidono. Cosa dice il relativista? Fino a che punto giustifica una pratica comportamentale e condanna un’altra? Perché di sicuro anche il relativista più convinto ha un piccolo nucleo di valori intoccabili. Non ci piove. Ma i relativisti spesso la fanno facile. A me invece sorgono due problemi, per loro:
1-perché quel piccolo nucleo di valori e non un altro? Perché l’infibulazione sì e lo ius primae noctis no?
2-il figlio del figlio del figlio del relativista fino a che punto stringerà il diametro del nucleo dei suoi valori assoluti?
Tutto poi si complica con le transumanze, è normale, ossia quando gli “Avantissimi” vanno a vivere dagli “Avanti”.
Tutto si sintetizza però nel relativismo temporale dell’assolutismo valoristico dei relativisti.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il fatto in sè di avere punti fermi, certezze o convinzioni, può comunque convivere in un relativista, magari affermando che egli assume una ferma posizione circa le sue idee, quando si richiede di dare un giudizio, arrivando ad asserire il non senso di dell'azione del giudicare? Il punto di vista del relativista è forse quello da imitare per cercare di comprendere azioni, non giuste o sbagliate, ma semplicemente diverse da quelle che la maggioranza degli apparteneneti ad una società compie abitualmente?
Alla domanda -1-: non tanto porre il problema di un nucleo di valori rispetto ad un altro, ma mantenerlo nella dimensione personale, accettando (tollerando) la diversità di posizioni quando si generalizza (l'inserimento in una società può essere un esempio).
Leo

Stefano ha detto...

Primo punto. Se al tuo commento provi a sostituire alla parola "relativista" la parola "scettico", intesa però nel senso etimologico del termine (da skèptikos, "sottile osservatore"), allora ci troviamo d'accordo.
Lo scetticismo filosofico presocratico è infatti ben diverso dal relativismo assoluto, e si pone, in prima battuta, come antitetico ai "dogmatismi" ed incline alla ricerca ed all'osservazione dei fatti. Il dubbio è ricerca e apertura. Fin qui sono d'accordo. Me relativismo e scetticismo li vedo come due termini distinti.
Secondo punto. Attenzione a non accostare il relativismo con un atteggiamento di pensiero democratico e "tollerante", e la fede in un nucleo di valori universali con una propensione all'intolleranza verso altre forme di etica. Il relativismo non è direttamente correlato con l'apertura mentale, la tolleranza e la capacità di comprendere il diverso: una convinzione culturalmente maggioritaria di tipo relativistico può imporre, in modo più o meno subdolo, un non-sistema di valori pericoloso dal punto di vista morale e di civiltà.
Terzo punto. Caspita se è importante il nucleo di valori di un relativista assoluto (e non di uno scettico, se ora provi a rileggere il commento come l'hai scritto, con la parola "relativista")! L'incoerenza almeno filosofica è stridente. Per questo affermo che è difficile proclamarsi relativisti, mentre oggi il cosiddetto pensare comune ne fa una sorta di "condicio sine qua non" per la tolleranza. Ma attenzione: capire ed accettare il diverso, che spesso ha una base di valori, non vuol dire non poter possederne una da parte propria. Relativismo e tolleranza sono su due piani differenti, possono intersecarsi oppure no.

La tua riflessione è interessante: non volendo mi fai pensare soprattutto al tema del dubbio come ricerca e metodo di studio. Sull'avversione ai dogmatismi e alle morali acriticamente imposte ed accettate la pensiamo uguale.
Grazie.