giovedì 17 settembre 2009

Kabul, 17/09

Un filo retorico, ma il genere epidittico deve esserlo. E poi e' scritto bene.
I talebani hanno ucciso sei soldati italiani. Avevano una nazione, una bandiera, un onore e un nome. Erano eroi del quotidiano, lontanissimi da casa, ma capaci di ricordare che esistono i doveri e non solo i diritti, sono lo specchio di un popolo che spesso indulge a dipingersi come pavido e opportunista, ma che è invece capace di gesti di grande eroismo, come quello di Fabrizio Quattrocchi, il fornaio senza diploma che ci ha mostrato "come vive un italiano" (nelle parole di George W. Bush). Il nostro eroismo non si nutre delle virtù militari, emerge di fronte all’offesa e all’ingiustizia. Di fronte alle scuole distrutte in Afghanistan dai talebani con il loro islamismo apocalittico, di fronte alle bambine a cui viene gettato acido in faccia, di fronte alle mine piazzate al passaggio di un gruppo di alunni. Quei sei italiani erano la mano che impedisce all’oscurantismo di tornare a riempire gli stadi di adultere da lapidare. Sono il volto migliore della nostra partecipazione a questa guerra dei cent'anni. I loro nomi non devono essere lambiti dagli opposti cretinismi nostrani e dalla cupidigia della resa senza condizioni. Siamo in Afghanistan per una vittoria da difendere dal fanatismo della peggior specie, siamo lì per testimoniare il nostro contributo orgoglioso alla libertà. Siamo andati in Afghanistan per difenderci in una guerra che ci è stata dichiarata e per confermare, combattendo il terrore, quel che siamo: uomini e donne liberi, figli di quest’occidente che più che geografia, è destino e storia. I nostri di Kabul sono caduti in una guerra che è stata dichiarata al mondo di cui l’Italia fa parte. Un mondo attaccato dal totalitarismo di chi idolatra la morte più della vita. Terroristi e predoni di bambini che uccidono liberatori e liberati. Sono gli italiani migliori, che esercitano la difesa in divisa e che cadono, prima sotto i colpi dei banditi di Saddam a Nassiryah, e poi dei tagliagole talebani a Kabul. Sono soldati immortali come nel celebre frammento di Teognide: “Morendo non perirono, eterni essi s’ergevano a monumento”.
Giulio Meotti

6 commenti:

Anonimo ha detto...

La sofferenza per le perdite umane la comprendo, poichè ogni morte porta con sè qualcosa di terribile e di doloroso; inoltre, più di qualsiasi altra esperienza emozionale esistente al mondo, solo la Morte riesce ad esprimere il "senso" dell'irrecuperabile. Della fine di un ciclo.
Del tempo trascorso.

Dunque la sofferenza per la morte dei nostri soldati la capisco, così come capisco la sofferenza dei parenti per la morte di un congiunto (quale che fosse la sua professione e la sua età), oppure la sofferenza degli amici per la morte di un membro del loro gruppo (idem c.s.: a prescindersi dalla sua professione ed età).

Capisco la sofferenza che la Morte si porta dietro, perchè l'ho vissuta.

Ma questa "elegia funebre", questi inevitabili discorsi vani e vuoti sul "sacrificio degli eroi" e sulla "inutilità della nostra presenza militare in Afghanistan", al pari dello "sgomento" dei politici e della immensa commozione e dolore dei prelati, mi irritano.
Mi danno fastidio.
Mi urtano profondamente.

Perchè sono le solite CAZZATE che si blaterano, da destra a sinistra e dal clero al popolo laico, quando accade l'inevitabile.
Ed è appunto inevitabile che, in una guerra, qualcuno muoia.

Questi morti, però, non erano il prodotto di una "chiamata alle armi" generalizzata.
Non erano le "vittime designate" ed "involontarie" di un "drafting" che strappa i mariti alle mogli, i padri ai figli ed i lavoratori alla propria terra.
No.

Questi morti, indubitabilmente e comunque da onorare, erano dei Professionisti della Guerra.
Erano dei Lavoratori della e nella Macchina Bellica.

Ed il loro rischio professionale - così come per l'elettricista è, ad esempio, nella folgorazione, e per il muratore è nella caduta da un impalcatura e per l'operaio metalmeccanico o manifatturiero, sempre come esempio, può risiedere nell'imprevedibile malfunzionamento di una delle macchine che egli usa per svolgere le sue mansioni - può consistere nel beccarsi una pallottola in fronte.
O nel calpestare una mina.
O magari nell'essere schiacciato da un'onda d'urto derivante da una deflagrazione ravvicinata.

La Morte al fronte, per un Soldato di Professione (ed oggi TUTTI i Soldati Italiani SONO dei PROFESSIONISTI), per qanto tragica possa essere (al pari di QUALSIASI ALTRA MORTE) è - appunto - un "Rischio Professionale".

E mi piacerebbe che, almeno una volta ogni cent'anni, in questo paese di mammoni ed ipocriti, gli eventi della Vita, per quanto tragici e strazianti possano essere, venissero chiamati con il loro nome...

Stefano ha detto...

Rinuncio a capire gl'italiani, di destra, di sinistra, di ogni appartenenza tranne che della logica: si esaltano i parà caduti in Afghanistan e insieme si inneggia al ritiro; nel nome del pacifismo e della nonviolenza, si esulta, da sciacalli: “meno sei!”. Ci si indigna per la “vigliaccheria” di nemici che, schiacciati da un disparità abissale di forze, privilegiano la tattica della guerriglia, il mordi e fuggi che sfrutta luoghi natii e per loro senza segreti. Si definiscono “eroi” i soldati, che però non hanno scelto di morire per salvare altri di fronte a un pericolo contingente ma sono caduti in una imboscata, come succede in tutte le guerre. Solo a un verme non si stringe il cuore davanti a sei bare che contengono sei ragazzi giovani, che lasciano sei vedove, sei famiglie distrutte. Ma solo gli idioti e gli ipocriti possono esaltarsi davanti a uno spreco di retorica che copre una spregiudicata operazione d'immagine, per mascherare le persistenti falsità di una guerra che chiamiamo pace. Tutto è avvolto da ambiguità e irrazionalità. Lasciare l'Afghanistan al suo destino è l'esatto contrario dell'umanitarismo di cui ci si riempie la bocca; è suicida in riferimento alle reazioni di un integralismo islamico che riprenderebbe ali; è superficiale in un'ottica internazionale; è improponibile se rapportato alle nostre necessità energetiche, strategiche, commerciali. Ma almeno si restituisse alle parole il loro senso, almeno ci si astenesse da feste macabre e demenziali, in un senso o nell'altro.
Massimodelpapa

Stefano ha detto...

Con il loro nome, come direbbe Langone. Sembra che la verità sia diventata roba per stomaci forti. Guerra, oddio ancora esiste la guerra? Che schifo, evviva la pace. Morte? Morte è tabù, calamità da rimuovere, al massimo possiamo applaudirla un giorno e poi via.
L'ipocrisia e la strumentalizzazione politica bipartisan neanche fa più incazzare ormai. Quello che preoccupa è l'oblio. Oggi osanniamo o vituperiamo le salme, lodiamo o affossiamo la missione (di guerra per una possibile pace), con veemenza inquisitoria. Domani non ce ne frega più niente, via ad emozionarci per la prossima notizia calda calda. Sono queste impennate di esaltazione/dimenticanza che preoccupano e sembrano indice di infantilità civile e culturale.

Anonimo ha detto...

Si, hai ragione.
Purtroppo, ahinoi, hai ragione al 100%.
Tragedia - Scoop - Esaltazione (in un senso o nell'altro) e poi Oblìo.
Inevitabile e completo.
Buio denso e compatto.
Sino alla prossima tragedia - scoop etc.

Che schifo di paese e di umanità che siamo diventati...

Stefano ha detto...

A tal proposito:

http://stefanocicetti.blogspot.com/2007/11/che-fine-hanno-fatto.html

Stefano ha detto...

Questa bellissima frase si trova spesso sui monumenti che all’indomani della Grande Guerra vennero dedicati ai caduti che si immolarono per una Italia tutta ancora da costruire. Un’Italia che , con buona pace della storiografia ufficiale non è quella del 1861, né del 1866 ma è quella del 4 novembre 1918.
E’ l’Italia del Piave, del Grappa, di Trento e Trieste. E’l’Italia di Vittorio Veneto. Da quel momento si cercò di costruire una Patria, un popolo, una storia comune , una lingua, una memoria, anche una retorica capace di far riconoscere i tanti umori, le tante specificità di cui è varia la nostra lunga penisola in un unicum. Dai dialetti parlati nelle trincee, si iniziò a dialogare in italiano, dal reclutamento fatto per zone omogenee si costruì un esercito che non mollò un metro sui confini più ardui, nonostante una guerra massacrante e lunghissima, perché sapeva che difendeva la propria Patria. Un concetto semplice per gente semplice: la terra dei padri, la casa, la famiglia, il proprio fratello o il compaesano erano il bene prezioso per cui combattere fino alla morte. Patria come sentire più immediato e poi, più complesso, di orizzonte comune, di dimensione comunitaria nazionale. Una Patria e un popolo che ebbero il modo di trovare simboli a cui appartenere, celebrazioni nelle quali ritrovarsi, parole d’ordine da pronunciare all’unisono.
Difficile da capire per chi ragiona con il metro di misura a cui una certa mentalità tenterebbe di uniformarci tutti . Parlo di quella oggi prevalente secondo la quale non vale la pena. Non vale la pena per nulla.
In occasione della solita trasmissione asservita a questo relativismo imperante, Ballarò, dopo l’attentato in Afghanistan, l’intervistatore pone una domanda piuttosto semplice: “Perché si parte soldato oggi?” Chiara l’intenzione, nel commento precedente, di lasciare intendere che si tratterebbe della scelta disperata di qualche ragazzo del sud, che non trovando di meglio si arruola nell’esercito italiano. La risposta la dà un giovane uomo, il Tenente Gianfranco Paglia, oggi deputato per il popolo della Libertà, Medaglia d’Oro al Valor Militare, seduto su una sedia a rotelle su cui fu costretto dopo un attentato in Somalia negli anni novanta. Paglia risponde: “Si parte perché si crede.” Immaginatevi lo sgomento per chi è abituato a ragionare secondo altre categorie mentali. Ma il peggio avviene quando Floris, ripresosi da qualche secondo di choc incalzando Paglia chiede: “Ma vale la pena di morire per questo?”
E’a questo punto che la serenità, la bellezza di quegli occhi di paracadutista della Folgore, la purezza di chi non vende e non compra nulla al mercato della propaganda politica, lascia inebetiti i presenti in studio. Risposta: “Sì, ne vale la pena. Vale la pena morire quando si crede nell’Onore e nella Patria.”
Questa è la linea di confine di due mondi, che non possono comunicare tra loro. Ad una risposta del genere o si capisce o è impossibile farlo. O si hanno alcuni principi o non si hanno, o si hanno alcune categorie spirituali o non si hanno. Sono due società, sono due mondi, sono due visioni del mondo, sono due modelli antropologici e non solo culturali o sociali.
Difficile da spiegare se non ritrovando sensibilità, rispetto, sacrificio e soprattutto una scala di valori come lasciò scritto Marzio Tremaglia nel proprio testamento spirituale: “Credo in una dimensione etica della vita che si riassume nel senso dell’onore e nel rispetto fondamentale verso se stessi, nel rifiuto del compromesso sistematico e nella certezza che esistono beni superiori alla vita e alla libertà per i quali a volte è giusto sacrificare vita e libertà.”
Questa è la mia Patria. Ieri confine fisico da difendere, i cui nomi dei protagonisti riempiono i tanti e troppo spesso dimenticati monumenti delle nostre città, oggi confine ideale da presidiare perché non vinca il relativismo, la furbizia, la vigliaccheria.

Elena Donazzan