mercoledì 19 dicembre 2007

Filosofia influenzata e caffè senz'anima

Un mio stimato collega, che ringrazio, mi propone questa poesia di Gioacchino Belli, "Er caffettiere filosofo". La riporto, mi piace. A seguire la mia analisi, molto molto personale, molto malata (sono a letto con l’influenza), poco professionale e spero poco poco noiosa.

L'ommini de sto monno sò ll'istesso

Che vvaghi de caffè nner mascinino:
C'uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
Tutti cuanti però vvanno a un distino.

Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino,
E ss'incarzeno, tutti in zu l'ingresso
Der ferro che li sfraggne in porverino.

E ll'ommini accusì vviveno ar monno
Misticati pe mmano de la sorte
Che sse li ggira tutti in tonno in tonno;

E mmovennose oggnuno, o ppiano, o fforte,
Senza capillo mai caleno a ffonno
Pe ccascà nne la gola de la morte.

Sonetto romanesco con innumerevoli richiami letterari e filosofici. C’è il "panta rei os potamos" di Eraclito, il mondo come flusso perenne in incessante divenire e trasformazione -"uno prima, uno doppo, e un antro appresso"-. La spina dorsale è di “Democrito, che ‘l mondo a caso pone”, come ricorda Dante, Democrito con il suo meccanicismo deterministico. C’è tutta la corrente atea del positivismo dell’Ottocento, e del razionalismo agnostico, ma privati entrambi della fede nella scienza e della fiducia nell’uomo. C’è la mediocrità del popolo di Manzoni, misero e inconsapevole, nei chicchi che “ss’incarzeno tutti in zu l’ingresso”, come quando la folla dei Promessi Sposi si alza sulle punte per vedere l’ospite che arriva: “alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati con le piante a terra; ma tant’è, tutti si alzavano”. Ci sono Plauto e Hobbes e il loro "homo homini lupus" nell’istinto di sopravvivenza e sopraffazione del vago grosso che “caccia” il vago piccino, e l’ineluttabilità del fato di omerica memoria nell’onomatopeico “sfraggnersi”. Si legge una spolverata di predestinazione di tipo luterano e calvinistico nell’andare “tutti cuanti a un distino”, perché la consapevolezza della fine pre-ordinata lascia intuire tra le righe l’inevitabilità di una prassi materialistica e di un relativismo dei valori. E non c’è qualche etto di pessimismo storico leopardiano, in questa sorte “che sse li ggira tutti in tonno in tonno”? Non ci sono i corsi e ricorsi storici di Vico e il suo “historia se repetit”, in quel calare a fonno “senza capillo mai”, prima di cascare nella gola della "signora e padrona" di Branduardi, che tutto livella e che tutto mette a tacere perché dopo c’è solo polvere di caffè? E l’atmosfera è dantesca, tantissimo, il macinino è un inferno senza pace, i chicchi sono gli ignavi, “genti dolorose ch’hanno perduto il ben dell’intelletto”. Non sentite “diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche”? Non è assordante e scomoda “nner mascinino” la presenza del diavolo? Diavolo che non è il male ma l’assenza del bene, che non è tentazione ma assenza di speranza, che è sì una forma se volete molto etica di umanesimo, ma un umanesimo poco socratico e poco rinascimentale, spogliato di ogni istinto sacrale, di ogni apertura a qualsiasi forma di Assoluto.

Clessidra schiacciachicchi. Escatologia senza zucchero. Caffè senz’anima.
Ci leggo tante cose, sarà l’influenza?

Nessun commento: