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Divertissement o divertìmose?
A leggere le due parole c’è di diverso appena la permutazione delle ultime due sillabe, ma il primo ha un significato più profondo se lo si intende, come lo intendeva Blaise Pascal, come stordimento di sé, oblio di sé nella molteplicità delle occupazioni quotidiane, e fuga da sé, dai supremi interrogativi sulla vita e sulla morte. Senza le quotidiane distrazioni l’uomo prova noia. E la noia esistenziale non è lo sbadiglio davanti alla puntata di Derrick, ma è rivelazione dell’insufficienza dell’uomo a sé stesso, dissidio tra strutturale miseria della condizione umana e agognata e mai raggiunta e mai raggiungibile felicità terrena: “non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non siamo mai tali”. Forse anche per questo Pascal parlava di “ragionevolezza” del cristianesimo e consigliava di “scommettere” sull’esistenza di Dio. Mi viene in mente spesso il povero Pascal, mi piace la sua lettura del di-vertire (dirottare dalla retta via della ragione e della ricerca), ci penso sia di fronte ai ragazzini ubriachi con il riso che abbonda sulla bocca, inconsapevole, sia di fronte al sorriso a zero denti e bocca deformata e occhio suino di Prodi, sebbene sia sempre meno frequente, chissà perché, un sorriso da divertìmose che fa dire al resto d’Europa, preoccupata per la sua salute, “is he ok?” “Ist er in Ordnung?” “Comment va-t-il?”. E allora penso che il divertissement sarebbe già un’enorme conquista: la coscienza della propria miseria è già segno di grandezza.
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