lunedì 20 aprile 2009

Liberta' di disperazione?

Ci si può interrogare sulla coscienza dei vivi, sulla loro affermazione della morte come libertà, che si oppone alla pietà e alla disperazione. In questo c’è un segno su cui interrogarsi, senza alterigia che nessuno può decentemente esercitare di fronte alla fine di una vita. Se la morte, che ciascuno può scegliere, è libertà ne consegue che la vita, che nessuno ha scelto di vivere, è per questo una costrizione. Non è più un dono, della natura o del Creatore, ma una condizione coatta, che può essere accettata o respinta secondo la soddisfazione che se ne può o meno ricavare. C’è una differenza notevole dalla rivolta romantica del Werther, e persino dalla caduta nel “vizio assurdo” di Cesare Pavese quando non resse più la fatica del mestiere di vivere, per non parlare del senso lancinante e invincibile di impotenza sentito da Primo Levi di fronte al male che gli pareva sommergesse tutto. Si sente in questo superomismo, in questa estensione della libertà individuale al di là del tabù del dovere di vivere, una forma nuova e accecante di disperazione. Persino Herbert Marcuse, dopo aver negato tutti i presupposti metafisici dell’essere, postulava che l’unico dogma dal quale si potesse partire è che la vita è degna di essere vissuta. O che almeno può essere resa tale.
Sergio Soave, il Foglio

1 commento:

Stefano ha detto...

http://www.ilfoglio.it/djds/43