Che significa "da qualche parte".
Siamo sempre da qualche parte. Solo che la mente e il cuore ci arrivano prima. Sono dannatamente più rapidi dei nostri piedi.
Ecco la storia vera della campagna (disunitaria) occidentale di Libia, dal 17 febbraio a oggi, trentaquattro giorni per arrangiare un consenso multilaterale a una missione dal comando oscillante e dagli obiettivi per lo meno incerti.
L’inizio. La giornata della collera del 17 febbraio, indetta sull’onda della (fu) primavera araba, si trasforma in una protesta contro il regime di Muammar Gheddafi: la Cirenaica, mai domata da Tripoli, si ribella e Bengasi diventa la capitale del dissenso, affiorano i rancori di un paese spezzato geograficamente a metà e politicamente in oltre 150 tribù. I rivoltosi avanzano sulla litoranea, obiettivo Tripoli, il trionfalismo delle tv arabe li incoraggia, ma la controffensiva di Gheddafi è già iniziata. Il colonnello compare in televisione con grande frequenza, ride fragorosamente (ma livido) quando i giornalisti occidentali lo intervistano sul lungomare e gli chiedono se ha intenzione di lasciare il potere. I ribelli non sarebbero arrivati mai fino a Tripoli.
La posizione americana. L’Amministrazione Obama fa della cautela la sua dottrina. Approva rapidamente le sanzioni con gli altri paesi del Consiglio di sicurezza, ma dà l’impressione d’essersi destata tardi e di non voler andare oltre. Il Pentagono è contrario all’intervento per una serie di ragioni: la Libia non ha un peso strategico rilevante per Washington – lo ha per l’Europa, e infatti gli Stati Uniti premono sugli europei perché prendano l’iniziativa; Gheddafi era stato riportato alla ragionevolezza nel 2006, dopo aver rinunciato alla corsa all’atomica, e poi nel 2008, quando ha stipulato con l’Italia berlusconiana un trattato strategico sul controllo dell’immigrazione e chiuso il contenzioso secolare ex coloniale; l’America è già coinvolta su altri fronti più sensibili e di significato strategico (da ultimo l’Egitto, assieme allo Yemen infiltrato dai qaidisti, l’Afghanistan talebano e il Pakistan), teme che un conflitto in Libia possa essere strumentalizzato come “la solita guerra degli americani contro i musulmani”. Per il Pentagono non è nell’interesse nazionale una campagna di Libia. Bob Gates, capo del Pentagono, sostiene che soltanto uno senza cervello ora aprirebbe un altro fronte in medio oriente e così sbugiarda quelli che parlano della “no fly zone” come una soluzione semplice e immediata: “Parlano a vanvera, è un atto di guerra”. Il dipartimento di stato di Hillary Clinton è più aperto all’opzione militare, ma vuole un mandato chiaro dell’Onu e la partecipazione dei paesi della regione. Obama alza i toni, dice che Gheddafi “se ne deve andare” e che quel che sta facendo al suo popolo è “inaccettabile”, ma ribadisce che è necessario il consenso internazionale per una missione. Crescono le pressioni del mondo diplomatico e dei media – soprattutto liberal, oltre che neocon –, e Obama cede. Al Consiglio di sicurezza dell’Onu del 17 marzo, viene votata la risoluzione 1973 per l’intervento umanitario “a protezione dei civili”, con alcune astensioni significative (Germania, Cina, Russia, Brasile e India). L’America entra in guerra, anche se, dopo due giorni, dice di non volere il comando della missione e non appena può annuncia che la prima fase dell’operazione “è verso la sua conclusione”.
Le pressioni francesi. Nicolas Sarkozy decide di rifarsi una nuova immagine di commander in chief in Libia, dopo che le crisi in Tunisia e in Egitto avevano colto di sorpresa l’ambiguo e imbambolato governo di Parigi. A Tripoli, Sarkozy ha soltanto da guadagnarci e così lavora per un cambio di regime contro Gheddafi: la Francia è il primo paese – al momento il solo – a riconoscere i ribelli di Bengasi come unici interlocutori della comunità internazionale e, dopo un’iniziale cautela, si allea con gli inglesi di David Cameron per reclamare un intervento militare. I britannici valutano la possibilità di imporre una “no fly zone” unilaterale e i francesi danno il loro appoggio. All’Eliseo “le pressioni umanitarie” sono forti, gravitano intorno alla moglie del presidente, Carla Bruni (già dirimente su altri dossier come quello riguardante Cesare Battisti), e hanno in Bernard-Henri Lévy uno dei maggiori sostenitori dell’intervento. Sarkozy vuole rafforzare la presenza francese in Libia, penalizzata dall’influenza economico-politica dell’Italia, e capitalizzare la morsa contro Gheddafi in vista delle presidenziali dell’anno prossimo. Il mondo della gauche lo sostiene, la sua popolarità cresce, ma non tutto gli è concesso dagli alleati.
Il ruolo degli inglesi, il rifiuto tedesco. Quasi in una rievocazione della campagna di Suez del ’56, gli inglesi dichiarano di voler agire in Libia con i francesi e con chi ci sta, costituendo una coalizione di volenterosi. Ottengono anche il consenso della Lega araba (pure se, parole a parte, al momento nessun paese arabo è ancora intervenuto), sono sospettati di aver dislocato truppe speciali (Sas) in Cirenaica per affiancare gli insorti e segnalare obiettivi militari nemici. I tedeschi sono freddi: già soffrono il peso eccessivo della presenza in Afghanistan; hanno una posizione geografica che permette loro di defilarsi senza troppi drammi (hanno annunciato il ritiro dalle operazioni Nato nel Mediterraneo); non vedono di buon occhio l’attivismo francese, così divisivo; i rapporti commerciali con la Libia sono deboli. Nei vertici sul comando della missione, la crisi tra tedeschi e francesi è stata palpabile.
Il ruolo dell’Italia. Roma ha tenuto fin dall’inizio due canali diplomatici aperti: con il regime e con i ribelli. L’Italia è il primo importatore di petrolio dalla Libia; ha interessi economici corposi nel paese; le nostre spiagge sono il primo punto d’approdo per migliaia di immigrati in fuga dal Maghreb; abbiamo un reticolo di basi militari indispensabili per il controllo del Mediterraneo e un rapporto intermittente, post coloniale e di lunga data con Gheddafi. Le fonti italiane invocano cautela. Il governo Berlusconi, di fronte alle pressioni internazionali e al voto dell’Onu, s’imbarca malvolentieri nella missione, concedendo prima le basi, poi offrendo mezzi aerei e infine chiedendo un comando congiunto della Nato per coordinare una missione senza testa e senza obiettivi condivisi. Come consigliato dall’ambasciatore Sergio Romano e dall’analista Piero Ostellino sul Corriere della Sera, l’Italia sta cercando alleanze alternative, fa leva sui tedeschi e sui russi che non vedono di buon occhio la missione.
L’Italia come l’America. Al terzo giorno dall’inizio delle operazioni – cominciate dai francesi con impaziente anticipo su quanto stabilito dagli alleati – Roma e Washington richiedono la stessa cosa: un comando della Nato, una prospettiva politica, un piano d’azione coordinato. Volentieri o no, dopo qualche traccheggiamento, Sarkozy ieri sera ha dato ascolto a Obama.
5 commenti:
Guerra ed umanitarismo:
http://www.ilgiornale.it/interni/leditoriale_oltre_lumanitarismo_ce_nostro_interesse/20-03-2011/articolo-id=512657-page=0-comments=1
http://www.corriere.it/editoriali/11_marzo_22/gli-interessi-nazionali-e-le-ipocrisie-piero-ostellino_0637e7cc-5450-11e0-a5ef-46c31ce287ee.shtml
Ostellino
Ecco la storia vera della campagna (disunitaria) occidentale di Libia, dal 17 febbraio a oggi, trentaquattro giorni per arrangiare un consenso multilaterale a una missione dal comando oscillante e dagli obiettivi per lo meno incerti.
L’inizio. La giornata della collera del 17 febbraio, indetta sull’onda della (fu) primavera araba, si trasforma in una protesta contro il regime di Muammar Gheddafi: la Cirenaica, mai domata da Tripoli, si ribella e Bengasi diventa la capitale del dissenso, affiorano i rancori di un paese spezzato geograficamente a metà e politicamente in oltre 150 tribù. I rivoltosi avanzano sulla litoranea, obiettivo Tripoli, il trionfalismo delle tv arabe li incoraggia, ma la controffensiva di Gheddafi è già iniziata. Il colonnello compare in televisione con grande frequenza, ride fragorosamente (ma livido) quando i giornalisti occidentali lo intervistano sul lungomare e gli chiedono se ha intenzione di lasciare il potere. I ribelli non sarebbero arrivati mai fino a Tripoli.
La posizione americana. L’Amministrazione Obama fa della cautela la sua dottrina. Approva rapidamente le sanzioni con gli altri paesi del Consiglio di sicurezza, ma dà l’impressione d’essersi destata tardi e di non voler andare oltre. Il Pentagono è contrario all’intervento per una serie di ragioni: la Libia non ha un peso strategico rilevante per Washington – lo ha per l’Europa, e infatti gli Stati Uniti premono sugli europei perché prendano l’iniziativa; Gheddafi era stato riportato alla ragionevolezza nel 2006, dopo aver rinunciato alla corsa all’atomica, e poi nel 2008, quando ha stipulato con l’Italia berlusconiana un trattato strategico sul controllo dell’immigrazione e chiuso il contenzioso secolare ex coloniale; l’America è già coinvolta su altri fronti più sensibili e di significato strategico (da ultimo l’Egitto, assieme allo Yemen infiltrato dai qaidisti, l’Afghanistan talebano e il Pakistan), teme che un conflitto in Libia possa essere strumentalizzato come “la solita guerra degli americani contro i musulmani”. Per il Pentagono non è nell’interesse nazionale una campagna di Libia. Bob Gates, capo del Pentagono, sostiene che soltanto uno senza cervello ora aprirebbe un altro fronte in medio oriente e così sbugiarda quelli che parlano della “no fly zone” come una soluzione semplice e immediata: “Parlano a vanvera, è un atto di guerra”. Il dipartimento di stato di Hillary Clinton è più aperto all’opzione militare, ma vuole un mandato chiaro dell’Onu e la partecipazione dei paesi della regione. Obama alza i toni, dice che Gheddafi “se ne deve andare” e che quel che sta facendo al suo popolo è “inaccettabile”, ma ribadisce che è necessario il consenso internazionale per una missione. Crescono le pressioni del mondo diplomatico e dei media – soprattutto liberal, oltre che neocon –, e Obama cede. Al Consiglio di sicurezza dell’Onu del 17 marzo, viene votata la risoluzione 1973 per l’intervento umanitario “a protezione dei civili”, con alcune astensioni significative (Germania, Cina, Russia, Brasile e India). L’America entra in guerra, anche se, dopo due giorni, dice di non volere il comando della missione e non appena può annuncia che la prima fase dell’operazione “è verso la sua conclusione”.
Le pressioni francesi. Nicolas Sarkozy decide di rifarsi una nuova immagine di commander in chief in Libia, dopo che le crisi in Tunisia e in Egitto avevano colto di sorpresa l’ambiguo e imbambolato governo di Parigi. A Tripoli, Sarkozy ha soltanto da guadagnarci e così lavora per un cambio di regime contro Gheddafi: la Francia è il primo paese – al momento il solo – a riconoscere i ribelli di Bengasi come unici interlocutori della comunità internazionale e, dopo un’iniziale cautela, si allea con gli inglesi di David Cameron per reclamare un intervento militare. I britannici valutano la possibilità di imporre una “no fly zone” unilaterale e i francesi danno il loro appoggio. All’Eliseo “le pressioni umanitarie” sono forti, gravitano intorno alla moglie del presidente, Carla Bruni (già dirimente su altri dossier come quello riguardante Cesare Battisti), e hanno in Bernard-Henri Lévy uno dei maggiori sostenitori dell’intervento. Sarkozy vuole rafforzare la presenza francese in Libia, penalizzata dall’influenza economico-politica dell’Italia, e capitalizzare la morsa contro Gheddafi in vista delle presidenziali dell’anno prossimo. Il mondo della gauche lo sostiene, la sua popolarità cresce, ma non tutto gli è concesso dagli alleati.
Il ruolo degli inglesi, il rifiuto tedesco. Quasi in una rievocazione della campagna di Suez del ’56, gli inglesi dichiarano di voler agire in Libia con i francesi e con chi ci sta, costituendo una coalizione di volenterosi. Ottengono anche il consenso della Lega araba (pure se, parole a parte, al momento nessun paese arabo è ancora intervenuto), sono sospettati di aver dislocato truppe speciali (Sas) in Cirenaica per affiancare gli insorti e segnalare obiettivi militari nemici. I tedeschi sono freddi: già soffrono il peso eccessivo della presenza in Afghanistan; hanno una posizione geografica che permette loro di defilarsi senza troppi drammi (hanno annunciato il ritiro dalle operazioni Nato nel Mediterraneo); non vedono di buon occhio l’attivismo francese, così divisivo; i rapporti commerciali con la Libia sono deboli. Nei vertici sul comando della missione, la crisi tra tedeschi e francesi è stata palpabile.
Il ruolo dell’Italia. Roma ha tenuto fin dall’inizio due canali diplomatici aperti: con il regime e con i ribelli. L’Italia è il primo importatore di petrolio dalla Libia; ha interessi economici corposi nel paese; le nostre spiagge sono il primo punto d’approdo per migliaia di immigrati in fuga dal Maghreb; abbiamo un reticolo di basi militari indispensabili per il controllo del Mediterraneo e un rapporto intermittente, post coloniale e di lunga data con Gheddafi. Le fonti italiane invocano cautela. Il governo Berlusconi, di fronte alle pressioni internazionali e al voto dell’Onu, s’imbarca malvolentieri nella missione, concedendo prima le basi, poi offrendo mezzi aerei e infine chiedendo un comando congiunto della Nato per coordinare una missione senza testa e senza obiettivi condivisi. Come consigliato dall’ambasciatore Sergio Romano e dall’analista Piero Ostellino sul Corriere della Sera, l’Italia sta cercando alleanze alternative, fa leva sui tedeschi e sui russi che non vedono di buon occhio la missione.
L’Italia come l’America. Al terzo giorno dall’inizio delle operazioni – cominciate dai francesi con impaziente anticipo su quanto stabilito dagli alleati – Roma e Washington richiedono la stessa cosa: un comando della Nato, una prospettiva politica, un piano d’azione coordinato. Volentieri o no, dopo qualche traccheggiamento, Sarkozy ieri sera ha dato ascolto a Obama.
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