Scruton, quello del Manifesto dei conservatori che tengo alla destra della Bibbia.
«Il degrado dell’arte non è mai stato più evidente» che oggi, scrive Scruton. Ma «la bellezza è un valore reale e universale, radicato nella nostra natura umana». Insomma attingibile, conoscibile e quindi comunicabile, insegnabile, persino plasmabile. Il filosofo inglese lo scrive all’inizio del suo libro e lo ripete fino alla fine. Cita persino l’idea del pulchrum oggettivo, antica quanto Platone e le Enneadi di Plotino, ne espone la «versione cristiana» elaborata da san Tommaso d’Aquino, che della bellezza fa un concetto trascendentale, tutt’uno, e «convertibile», con la giustizia, la bontà, la verità della perfezione dell’essere divino. Per forza Scruton ha spaccato, ancora una volta, la bolgia dei commentatori, degli opinionisti e dei critici in due metà contrapposte, chi volentieri lo lapiderebbe sulla pubblica piazza e chi invece lo osanna per il suo ritorno a concetti chiari e distinti ancorché démodé. Un vero reazionario, insomma, ma Scruton non se ne vergogna affatto. Anzi. Sono anni che attacca frontalmente il culto del brutto tipico di chi progetta le città in cui siamo per forza di cose costretti tutti a vivere, il cupio dissolvi palpabile nella stragrande maggioranza degli «artisti» contemporanei, la vanagloria nichilista delle cosiddette «archistar».
La pupa e il secchione
2 mesi fa
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