Alla caduta del Muro piansi d’emozione. Il Muro non era una frontiera. Le frontiere possono essere un luogo di scambio: filtrano, non fermano i flussi. Ma non ci sono scambi dove c’è un muro. Nei decenni il Muro di Berlino mi parve un’orribile cicatrice. Vederlo crollare fu una vera gioia, così come sentire i manifestanti delle due Germanie gridare in coro: Wir sind ein Volk! (Siamo un solo popolo!). Le delusioni vennero dopo.
Innanzitutto la riunificazione tedesca non fu superamento dei sistemi della Repubblica federale di Germania (Brd) e della Repubblica democratica tedesca (Ddr), ma assorbimento della Germania est nella Germania ovest. I tedeschi orientali divennero «occidentali». Passarono dalla Ddr, sotto influenza sovietica, alla Germania, sotto influenza «atlantica».
Annuncio dello sgretolarsi del sistema sovietico, la caduta del Muro di Berlino non segnò solo la fine del dopoguerra. Chiuse anche il XX secolo, il «secolo breve»: 1917-89 (la guerra del 1914 cambiò natura nel ’17, con la rivoluzione russa e l’entrata in guerra degli Stati Uniti). Più in generale, finì l’ampio vasto ciclo della modernità, cominciato dal Rinascimento. Dagli anni ’90 siamo nell’era postmoderna, non più nell’era degli Stati-nazione, ma in quella delle comunità, delle reti e dei grandi complessi continentali.
Troppo spesso si dimentica il contributo alla globalizzazione dato dalla fine dell’Urss. Ormai il pianeta è unificato, ma di un’unificazione dialettica, perché, in reazione al movimento principale, comporta un’altra frammentazione. Ma le frontiere non fermano più niente: né uomini, né merci, né comunicazioni, né tecnologie. I mercati finanziari agiscono in «tempo reale» da un capo all’altro della Terra. In un attimo le crisi locali diventano mondiali. La tecnoscienza s’estende ovunque. Il liberalismo e la logica del capitale dominano tutto, mentre l’ideologia dei diritti dell’uomo è la nuova religione civile. Un mondo di tal fatta non ha più nulla d’«esterno» (nel senso che, durante la Guerra fredda, il «mondo libero» era «esterno» al blocco sovietico). È ciò che Paul Virilio chiama globalitarismo.
Infine la caduta del Muro di Berlino estingue il Nomos della Terra risalente al 1945. In greco nomos è «legge», ma anche, in origine e in generale, «ripartizione, spartizione». Il Nomos della Terra descrive la disposizione generale dei rapporti di forza internazionali. Carl Schmitt distingue il susseguirsi di tre grandi Nomos della Terra: il primo va dalle origini alla scoperta del Nuovo Mondo; il secondo si confonde con l’ordine degli Stati-nazione nati dal trattato di Westfalia; il terzo scaturisce dalla fine della II guerra mondiale e si connette all’ordine binario (americano-sovietico) di Yalta. La nostra epoca d’incertezza e transizione - quanto lontana dalla fine della storia, annunciata da Francis Fukuyama! - ci fa chiedere: quale sarà il quarto Nomos della Terra? Avremo il mondo unipolare, consacrazione del potere planetario della potenza dominante, gli Stati Uniti d’America; o avremo il mondo multipolare - pluriversum, non universum -, dove i grandi complessi culturali e civili si manterranno diversi, agendo come poli regolatori della globalizzazione?
La questione del quarto Nomos della Terra pone però anche il problema della «quarta teoria politica». Il XVIII secolo vide nascere il liberalismo; il XIX, il socialismo; il XX, il fascismo. Nel XXI quale teoria politica nascerà? Oggi ogni grande ideologia che abbia formato la modernità è in crisi e, come ogni famiglia politica, cerca una nuova identità. La teoria politica del futuro combinerà e supererà, nel senso hegeliano del termine, le passate teorie. Tenterà di combinare libertà e giustizia sociale, lotta all’alienazione e volontà d’autonomia, senso della misura e affermazione di sé, valori disinteressati e «comune decenza» (common decency) di George Orwell. C’è una connessione fra globalizzazione, postmodernità, quarto Nomos della Terra e quarta teoria politica.
Alain de Benoist
Nessun commento:
Posta un commento