Che significa "da qualche parte".
Siamo sempre da qualche parte. Solo che la mente e il cuore ci arrivano prima. Sono dannatamente più rapidi dei nostri piedi.
Il caso non è un soggetto semplice e, soprattutto, non è un’entità univoca. Dire che il determinato evento o fenomeno si è prodotto per caso non basta affatto a fornirci le coordinate epistemologiche di quell’evento o fenomeno. I biologi evoluzionisti, che pure hanno tanti meriti, dovrebbero meglio rendersi conto di questa semplice verità, per fare i conti fino in fondo con l’eredità loro lasciata da Jacques Monod nel suo fondamentale lavoro “Il caso e la necessità”. Perché Jacques Monod, straordinario biologo, non aveva una visione lucida del caso e della probabilità, cosicché, paradossalmente, il suo principale assunto si rivela a lungo andare claudicante, in quanto attribuisce al caso quel carattere assoluto e invariante che invece non ha. Cosa afferma, in estrema sintesi Monod? Che c’è un evento iniziale, nella riproduzione sessuata invariante, che spinge in avanti il processo evolutivo. Che questo evento, consistente in piccole mutazioni genetiche, si produce a caso. Che queste mutazioni entrano a far parte dell’invarianza riproduttiva, e dunque si trasmettono alle generazioni successive a patto che apportino un vantaggio adattativo, altrimenti finiranno per perdersi. Che il giudizio sul vantaggio adattativo è formulato dalla selezione naturale che tradurrà le mutazioni favorevoli in maggiore capacità riproduttiva da parte dei portatori – ovvero in un aumento della teleonomia, la capacità di trasmettere alle generazioni successive prestazioni e qualità delle generazioni precedenti.
Sussistono ben pochi dubbi che questo schema sia a tutti gli effetti quello che opera realmente in natura. Con una precisazione essenziale, però, che Monod non fa e che non fanno i biologi evoluzionisti che si sono misurati col suo pensiero: le piccole mutazioni genetiche si produrranno certamente a caso ma i loro effetti sono, diversamente da quelli prodotti dal caso allo stato puro, talmente poco casuali che tendono, proprio per questa a-casualità, a condizionare sempre di più l’operato stesso del caso, che finisce così per essere a sua volta sempre meno casuale. Vediamo di spiegarci. E si prenda l’esempio dell’apparato fonatorio umano. Una identica mutazione casuale può risultare del tutto improduttiva o sommamente utile, dipende dal “terreno” su cui cade. Homo è stato beneficiato da mutazioni che perfezionavano il suo apparato fonatorio, ma soltanto in quanto un tale perfezionamento poteva essere messo a frutto e valorizzato dalla stazione eretta. Niente stazione eretta niente valorizzazione, nessun vantaggio. Per quel che ne sappiamo mutazioni analoghe possono essersi prodotte più volte negli stessi primati, è anzi pressoché certo che si siano prodotte, salvo che tra di loro non hanno sortito effetti perché la loro stazione non consentiva che quelle mutazioni potessero attecchire ed esser messe a frutto. Ma questo equivale a dire che non c’è un “caso” così dispoticamente padrone della scena evolutiva come si supporrebbe, e come del resto ci è stato insegnato dall’evoluzionismo. L’azione del caso è sottoposta a vincoli e condizionamenti e in questo senso non è pienamente casuale. Questi vincoli e condizionamenti, d’altro canto, aumentano quanto più aumenta la “complessità totale” del panorama dei viventi. L’aumento della complessità del mondo vivente vincola il caso, in qualche modo lo direziona, lo distorce, perfino. Se, per ipotesi, si arrivasse a toccare il massimo livello possibile di complessità e adattabilità totali del mondo vivente, l’azione del caso non avrebbe più modo di esplicarsi, giacché essa tende, attraverso il filtro della selezione naturale, ad aggiungere adattabilità, compatibilmente con la complessità raggiunta e raggiungibile da parte delle singole forme di vita. Per dirla in parole forse fin troppo semplici: è alquanto più agevole scrivere su una lavagna pulita, sgombra, che non su una che sia stata riempita di una distesa di formule matematiche come a volte se ne vedono nei film. Il caso è il caso, ma anche la lavagna è la lavagna e la lavagna della vita, mano a mano che si riempie, costringe il caso a essere sempre meno casuale, ancor più negli effetti ch’è capace di produrre.
Non c’è un caso soltanto, qui è il punto. E il caso che c’è nella riproduzione, nella evoluzione della vita, è il caso meno casuale che sia dato conoscere. La pallina della roulette riparte per così dire da zero a ogni nuovo giro, così come ogni mano di carte a scopone scientifico come al poker è sempre una nuova mano; ed è la stessa cosa per il lotto e l’enalotto, per la lotteria nazionale di capodanno come per quella pasquale del barista sotto casa che ha come primo premio, ogni anno, un uovo di cioccolata così gigantesco da non sapere che farne. La lavagna, per continuare l’analogia, in tutti questi esempi non si riempie mai per la buona ragione che a ogni giro, mano, colpo, estrazione, partita viene cancellato il risultato precedente, cosicché essa è sempre perfettamente sgombra, in attesa di un nuovo risultato che, una volta arrivato e scritto, non potrà che essere cancellato a sua volta dal risultato successivo, e così via. Su lavagne come queste il caso ha campo libero e può operare del tutto casualmente. Ma solo su lavagne come queste, che però hanno poco da spartire con la lavagna dell’evoluzione della vita e dei viventi. Perché questa lavagna, diversamente, non viene “mai” o quasi mai cancellata, ed è per questo motivo che il caso, per quanto possa prodursi proprio a caso, com’è nella riproduzione sessuata, non sortisce effetti davvero casuali, bensì condizionati in misura crescente da tutto quello che sta già scritto sulla lavagna. Ciò equivale a dire che il caso finisce per avere sempre meno possibilità d’azione, sempre meno spazio reale (siamo nel campo della probabilità subordinata o bayesiana, dal nome del suo inventore, e non della probabilità oggettiva che per così dire misura il puro effetto del caso). Fino a quando la lavagna non sarà piena e il caso non avrà più alcuno spazio, alcun modo di operare. Non è molto realistico supporre che la lavagna arriverà a riempiersi del tutto, a maggior ragione in quanto sul palcoscenico della vita si sono avute e si possono sempre avere distruzioni immani di complessità e variabilità che sulle macerie del passato lentamente ricreano disponibilità di posti e ambienti, aprendo così possibilità evolutive ad altre forme di vita (puliscono la lavagna, in certo qual modo, per quanto cruento esso sia). Ma ciò non impedisce a quello straordinario fattore evolutivo che è e resta il caso di risultare sempre più subordinato, nei suoi effetti concreti, al livello già raggiunto dalla complessità. E siccome questo livello tocca col sapiens moderno una vetta assoluta e capace di intervenire, mutandoli e ridisegnandoli, sugli ambienti e su ogni nicchia ecologica ovunque dislocata, ecco che mai come oggi si può sostenere che il caso stia cedendo capacità e intensità evolutiva proprio a quest’ultimo, al sapiens moderno.
In effetti il caso è costretto ormai a operare in presenza di un diverso ma a sua volta potente fattore selettivo/ evolutivo rappresentato dall’uomo e dal complesso delle sue attività e azioni. Un fattore nient’affatto casuale e che si interpone con forza crescente (e speriamo con crescente consapevolezza) tra la sempre più problematica capacità del caso di apportare “mutazione potenzialmente evolutiva” da un lato e gli ambienti entro i quali questa mutazione deve essere vagliata dalla selezione naturale dall’altro. La comparsa e l’evoluzione di Homo, e segnatamente di sapiens, e del sapiens moderno in modo particolarissimo, rappresentano così il più formidabile vincolo mai apparso all’azione evolutiva del caso. E ciò a maggior ragione in quanto Homo ha ormai intercettato – si ricordi – tutta quanta la casualità che gli necessitava affinché, arrivando dov’è arrivato, l’evoluzione culturale gli consentisse di affrancarsi dalla biologia e dalla stessa casualità. Cosicché si può ben dire che sapiens affianca oggi, per mano sua, con il suo operato, una selezione generalmente culturale a quella naturale e biologica della selezione naturale. La selezione naturale non è più, neppure essa, come già il caso, padrona assoluta del campo.
Ma c’è anche un altro punto, sempre a proposito di selezione naturale, di necessità, che deve essere riconsiderato. Questa necessità, come sappiamo, è di un ordine del tutto generale che Richard C. Lewontin nel suo “Biologia come ideologia” descrive così: “Egli (Darwin) sostenne che c’era una lotta universale per la sopravvivenza perché nasceva un numero di organismi superiore a quelli che potevano sopravvivere e riprodursi e che, nel corso di questa lotta per la sopravvivenza, gli organismi che erano più efficienti, meglio progettati, più abili, e in generale meglio costruiti per la lotta, avrebbero lasciato più prole che non i tipi inferiori. Il cambiamento evolutivo si verificava in conseguenza di questa vittoria nella lotta per la sopravvivenza”.
La lotta per la sopravvivenza cui si rifà Darwin è direttamente mutuata dalle idee di Thomas Malthus e dal suo “principio di popolazione”, secondo il quale mentre la produzione di risorse cresce in progressione aritmetica la popolazione aumenta, se lasciata libera di farlo, secondo una progressione geometrica ben più accelerata di quella aritmetica, cosicché si avrà sempre una lotta all’ultimo sangue degli individui tra di loro per cercare di accaparrarsi le perennemente insufficienti risorse, e in questa lotta finirà sempre per spuntarla chi è meglio attrezzato e ha per così dire le spalle più solide e coperte.
Chiunque abbia letto Darwin sa che egli colloca la lotta per la sopravvivenza in un universo che si è già ben distaccato dal muro rappresentato dalla complessità così modesta del batterio, ovvero dal muro dell’unicellularità. L’unicellularità in certo senso non è che il primo passo verso la complessità (e la molteplicità, la variabilità), quello che prepara la strada alla complessità. Un primo passo lunghissimo, e lentissimo da compiersi, ma proporzionato alla qualità e all’ampiezza del salto dalla semplicità nella complessità. Beninteso: forse la vita, da qualche parte dell’universo – semmai ce n’è di vita nell’universo, e non è detto affatto che ce ne sia, specialmente in forme complesse – può non farcela a discostarsi dal muro rappresentato dalla semplicità del batterio; ma in questa eventualità non c’è chi non veda come, specialmente se rapportata allo sviluppo che ha avuto sul nostro pianeta, questa sua semplicità rappresenti ad un tempo, per così dire, la realizzazione e la conclusione, per non dire proprio la tomba, della vita stessa. La vita è infatti un po’ come uno stadio di calcio che ha bisogno di riempirsi ogni domenica per giustificare la sua funzione, la sua stessa esistenza. Anche la vita, per non smentire se stessa, per non tornare indietro fino a schiacciarsi contro il muro biologico che la separa dalla non vita, ha bisogno di riempirsi di vita come uno stadio di spettatori, ovvero di complessità, molteplicità, variabilità. La complessità, essendoci le condizioni affinché lo stadio della vita si riempisse, è stata a un tempo la sua fortuna e il suo compimento, il suo caso e la sua necessità. Paradossalmente, non c’erano alternative, una volta che la semplicità del batterio aveva colonizzato la terra e la biosfera, strutturando una molteplicità di ambienti che potevano ospitarla, alla complessità.
Ma in quest’ottica dei “posti liberi” esistenti nello stadio della vita e che non potevano non esistere per far posto alla complessità, forse non è neppure così rispondente al vero l’immagine di una guerra di tutti contro tutti, ciascun organismo in lotta contro tutti gli altri per occupare e ampliare il suo spazio, la sua nicchia, le sue possibilità e potenzialità riproduttive che Darwin trasse direttamente da Malthus. La necessità della lotta per la sopravvivenza di cui parla Darwin è sostanzialmente quella di un mondo vivente già straordinariamente affollato di complessità. La complessità si è aperta il varco nel mare della semplicità batterica non soltanto grazie alle condizioni ecologiche create dagli stessi batteri nel lunghissimo periodo di tre miliardi di anni, ma anche grazie alla cosiddetta legge dei rendimenti crescenti, formulata per primo dall’economista Brian Arthur. Questa legge, in quanto nata nel seno dell’economia, è riferita dal suo autore alla sfera economica. Ma qualcosa di molto importante è capace di suggerisci anche e proprio a proposito del perché, della ragione e del successo, della complessità. L’interrogativo dell’economista Brian Arthur è del tipo: “Perché le aziende ad alta tecnologia” si sono “azzuffate per trovare un posto nella Silicon Valley attorno a Stanford, piuttosto che ad Ann Arbor o a Berkeley?”. La risposta è la più semplice e decisiva al tempo stesso, in quanto va ben al di là dello specifico economico. “Perché in quel luogo c’era già un buon numero di società ad alta tecnologia. A chi ha sarà dato”. A un certo punto si producono degli addensamenti, dei veri e propri poli di grande complessità – industriali e produttivi, in questo caso – semplicemente perché qualcuno ha cominciato a fare, con successo, qualcosa in un determinato ambiente. Non per altro. Chiaro che se questo qualcuno non avesse avuto successo nessuno lo avrebbe seguito o, per bene che andasse, solo qualche altro intemerato ci avrebbe riprovato molto tempo dopo, quando giusto il tempo avesse cancellato anche il ricordo di quello sfortunato precedente. Ma il successo crea l’emulazione e quest’ultima finisce per ampliare a dismisura le dimensioni del primo. Ciò è vero sempre e comunque, in economia come in biologia, nel gioco del calcio come sul palcoscenico dell’evoluzione. Questa legge dei rendimenti crescenti, che a un certo punto ha cominciato a premiare proprio la complessità grazie al successo ottenuto da qualche forma di vita più complessa di altre, e che può aver dato luogo a una vera e propria corsa alla complessità biologica simile alla corsa produttivo-tecnologica che ha portato gli uomini a compiere negli ultimi cinquant’anni un cammino più lungo di tutta quanta la storia precedente (un Cambriano tecnologico anziché biologico, in fondo), comporta ben più un allargamento di possibilità che non un loro restringimento, un dare piuttosto che un togliere opportunità e occasioni, pur se tutto ciò sembra – ma non lo è – in opposizione allo spirito stesso di questa legge di provenienza evangelica: a chi ha sarà dato.
Il punto è che in molti, in moltissimi possono avere, e non in pochi. Non sussistono dubbi, visto l’esito ch’è sotto gli occhi di tutti, sul fatto che deve esserci stato un periodo, quello dello sviluppo della complessità e della molteplicità delle forme di vita, in cui a molti, a moltissimi organismi viventi è stato dato, e che quindi hanno potuto affinarsi e affermarsi più in una sorta, se si può dir così, di interazione reciproca che non nella lotta per vicendevoli annientamenti. Il darwinismo, e l’evoluzionismo tout court, sembrano entrare in qualche difficoltà se considerati in rapporto non tanto con la complessità in sé quanto piuttosto con la sua spropositata affermazione, con l’affermazione della varietà, del moltiplicarsi ininterrotto e brulicante delle diverse, le più lontane e le più differenziate tra di loro, eppure tutte coabitanti e in qualche modo interagenti, forme di vita. Un trionfo di queste dimensioni della complessità e della varietà, infatti, non si concilia fino in fondo con il principio di una spietata e ininterrotta lotta di ciascuno contro tutti. Se questa lotta fosse stata in atto sin dall’origine con la spietatezza che le viene comunemente attribuita la molteplicità non avrebbe potuto attecchire, non almeno nella misura in cui invece lo ha fatto, sarebbe stata contrastata e risospinta indietro di continuo da quella stessa spietatezza che non tollera contendenti e che, se appena può, toglie di mezzo, leva dal mondo, esclude dalla vita – anzi, per dirla con Malthus, “dal banchetto della vita”. Mentre invece abbiamo assistito a un’inclusione, piuttosto che a un’esclusione, di forme di vita. Il successo non effimero delle singole forme di vita e della loro molteplicità, questo è il punto, è la costante dell’evoluzione in quanto, come abbiamo detto, c’è, in linea generale, il posto e – essendoci il posto – non tutto è lotta all’ultimo sangue né tra gli individui di una stessa specie né tra individui di specie diverse. Come dire, insomma, che il caso non è così casuale e la selezione naturale non così compiutamente selettiva come ce li hanno descritti e come continuano a descriverceli biologi evolutivi, paleontologi, genetisti e varia umanità scientifica più o meno rigorosamente darwinista-monodiana e al fondo malthusiana.
7 commenti:
Il caso non è un soggetto semplice e, soprattutto, non è un’entità univoca. Dire che il determinato evento o fenomeno si è prodotto per caso non basta affatto a fornirci le coordinate epistemologiche di quell’evento o fenomeno. I biologi evoluzionisti, che pure hanno tanti meriti, dovrebbero meglio rendersi conto di questa semplice verità, per fare i conti fino in fondo con l’eredità loro lasciata da Jacques Monod nel suo fondamentale lavoro “Il caso e la necessità”. Perché Jacques Monod, straordinario biologo, non aveva una visione lucida del caso e della probabilità, cosicché, paradossalmente, il suo principale assunto si rivela a lungo andare claudicante, in quanto attribuisce al caso quel carattere assoluto e invariante che invece non ha. Cosa afferma, in estrema sintesi Monod? Che c’è un evento iniziale, nella riproduzione sessuata invariante, che spinge in avanti il processo evolutivo. Che questo evento, consistente in piccole mutazioni genetiche, si produce a caso. Che queste mutazioni entrano a far parte dell’invarianza riproduttiva, e dunque si trasmettono alle generazioni successive a patto che apportino un vantaggio adattativo, altrimenti finiranno per perdersi. Che il giudizio sul vantaggio adattativo è formulato dalla selezione naturale che tradurrà le mutazioni favorevoli in maggiore capacità riproduttiva da parte dei portatori – ovvero in un aumento della teleonomia, la capacità di trasmettere alle generazioni successive prestazioni e qualità delle generazioni precedenti.
Sussistono ben pochi dubbi che questo schema sia a tutti gli effetti quello che opera realmente in natura. Con una precisazione essenziale, però, che Monod non fa e che non fanno i biologi evoluzionisti che si sono misurati col suo pensiero: le piccole mutazioni genetiche si produrranno certamente a caso ma i loro effetti sono, diversamente da quelli prodotti dal caso allo stato puro, talmente poco casuali che tendono, proprio per questa a-casualità, a condizionare sempre di più l’operato stesso del caso, che finisce così per essere a sua volta sempre meno casuale. Vediamo di spiegarci. E si prenda l’esempio dell’apparato fonatorio umano. Una identica mutazione casuale può risultare del tutto improduttiva o sommamente utile, dipende dal “terreno” su cui cade. Homo è stato beneficiato da mutazioni che perfezionavano il suo apparato fonatorio, ma soltanto in quanto un tale perfezionamento poteva essere messo a frutto e valorizzato dalla stazione eretta. Niente stazione eretta niente valorizzazione, nessun vantaggio. Per quel che ne sappiamo mutazioni analoghe possono essersi prodotte più volte negli stessi primati, è anzi pressoché certo che si siano prodotte, salvo che tra di loro non hanno sortito effetti perché la loro stazione non consentiva che quelle mutazioni potessero attecchire ed esser messe a frutto. Ma questo equivale a dire che non c’è un “caso” così dispoticamente padrone della scena evolutiva come si supporrebbe, e come del resto ci è stato insegnato dall’evoluzionismo. L’azione del caso è sottoposta a vincoli e condizionamenti e in questo senso non è pienamente casuale. Questi vincoli e condizionamenti, d’altro canto, aumentano quanto più aumenta la “complessità totale” del panorama dei viventi. L’aumento della complessità del mondo vivente vincola il caso, in qualche modo lo direziona, lo distorce, perfino. Se, per ipotesi, si arrivasse a toccare il massimo livello possibile di complessità e adattabilità totali del mondo vivente, l’azione del caso non avrebbe più modo di esplicarsi, giacché essa tende, attraverso il filtro della selezione naturale, ad aggiungere adattabilità, compatibilmente con la complessità raggiunta e raggiungibile da parte delle singole forme di vita. Per dirla in parole forse fin troppo semplici: è alquanto più agevole scrivere su una lavagna pulita, sgombra, che non su una che sia stata riempita di una distesa di formule matematiche come a volte se ne vedono nei film. Il caso è il caso, ma anche la lavagna è la lavagna e la lavagna della vita, mano a mano che si riempie, costringe il caso a essere sempre meno casuale, ancor più negli effetti ch’è capace di produrre.
Non c’è un caso soltanto, qui è il punto. E il caso che c’è nella riproduzione, nella evoluzione della vita, è il caso meno casuale che sia dato conoscere. La pallina della roulette riparte per così dire da zero a ogni nuovo giro, così come ogni mano di carte a scopone scientifico come al poker è sempre una nuova mano; ed è la stessa cosa per il lotto e l’enalotto, per la lotteria nazionale di capodanno come per quella pasquale del barista sotto casa che ha come primo premio, ogni anno, un uovo di cioccolata così gigantesco da non sapere che farne. La lavagna, per continuare l’analogia, in tutti questi esempi non si riempie mai per la buona ragione che a ogni giro, mano, colpo, estrazione, partita viene cancellato il risultato precedente, cosicché essa è sempre perfettamente sgombra, in attesa di un nuovo risultato che, una volta arrivato e scritto, non potrà che essere cancellato a sua volta dal risultato successivo, e così via. Su lavagne come queste il caso ha campo libero e può operare del tutto casualmente. Ma solo su lavagne come queste, che però hanno poco da spartire con la lavagna dell’evoluzione della vita e dei viventi. Perché questa lavagna, diversamente, non viene “mai” o quasi mai cancellata, ed è per questo motivo che il caso, per quanto possa prodursi proprio a caso, com’è nella riproduzione sessuata, non sortisce effetti davvero casuali, bensì condizionati in misura crescente da tutto quello che sta già scritto sulla lavagna. Ciò equivale a dire che il caso finisce per avere sempre meno possibilità d’azione, sempre meno spazio reale (siamo nel campo della probabilità subordinata o bayesiana, dal nome del suo inventore, e non della probabilità oggettiva che per così dire misura il puro effetto del caso). Fino a quando la lavagna non sarà piena e il caso non avrà più alcuno spazio, alcun modo di operare. Non è molto realistico supporre che la lavagna arriverà a riempiersi del tutto, a maggior ragione in quanto sul palcoscenico della vita si sono avute e si possono sempre avere distruzioni immani di complessità e variabilità che sulle macerie del passato lentamente ricreano disponibilità di posti e ambienti, aprendo così possibilità evolutive ad altre forme di vita (puliscono la lavagna, in certo qual modo, per quanto cruento esso sia). Ma ciò non impedisce a quello straordinario fattore evolutivo che è e resta il caso di risultare sempre più subordinato, nei suoi effetti concreti, al livello già raggiunto dalla complessità. E siccome questo livello tocca col sapiens moderno una vetta assoluta e capace di intervenire, mutandoli e ridisegnandoli, sugli ambienti e su ogni nicchia ecologica ovunque dislocata, ecco che mai come oggi si può sostenere che il caso stia cedendo capacità e intensità evolutiva proprio a quest’ultimo, al sapiens moderno.
In effetti il caso è costretto ormai a operare in presenza di un diverso ma a sua volta potente fattore selettivo/ evolutivo rappresentato dall’uomo e dal complesso delle sue attività e azioni. Un fattore nient’affatto casuale e che si interpone con forza crescente (e speriamo con crescente consapevolezza) tra la sempre più problematica capacità del caso di apportare “mutazione potenzialmente evolutiva” da un lato e gli ambienti entro i quali questa mutazione deve essere vagliata dalla selezione naturale dall’altro. La comparsa e l’evoluzione di Homo, e segnatamente di sapiens, e del sapiens moderno in modo particolarissimo, rappresentano così il più formidabile vincolo mai apparso all’azione evolutiva del caso. E ciò a maggior ragione in quanto Homo ha ormai intercettato – si ricordi – tutta quanta la casualità che gli necessitava affinché, arrivando dov’è arrivato, l’evoluzione culturale gli consentisse di affrancarsi dalla biologia e dalla stessa casualità. Cosicché si può ben dire che sapiens affianca oggi, per mano sua, con il suo operato, una selezione generalmente culturale a quella naturale e biologica della selezione naturale. La selezione naturale non è più, neppure essa, come già il caso, padrona assoluta del campo.
Ma c’è anche un altro punto, sempre a proposito di selezione naturale, di necessità, che deve essere riconsiderato. Questa necessità, come sappiamo, è di un ordine del tutto generale che Richard C. Lewontin nel suo “Biologia come ideologia” descrive così: “Egli (Darwin) sostenne che c’era una lotta universale per la sopravvivenza perché nasceva un numero di organismi superiore a quelli che potevano sopravvivere e riprodursi e che, nel corso di questa lotta per la sopravvivenza, gli organismi che erano più efficienti, meglio progettati, più abili, e in generale meglio costruiti per la lotta, avrebbero lasciato più prole che non i tipi inferiori. Il cambiamento evolutivo si verificava in conseguenza di questa vittoria nella lotta per la sopravvivenza”.
La lotta per la sopravvivenza cui si rifà Darwin è direttamente mutuata dalle idee di Thomas Malthus e dal suo “principio di popolazione”, secondo il quale mentre la produzione di risorse cresce in progressione aritmetica la popolazione aumenta, se lasciata libera di farlo, secondo una progressione geometrica ben più accelerata di quella aritmetica, cosicché si avrà sempre una lotta all’ultimo sangue degli individui tra di loro per cercare di accaparrarsi le perennemente insufficienti risorse, e in questa lotta finirà sempre per spuntarla chi è meglio attrezzato e ha per così dire le spalle più solide e coperte.
Chiunque abbia letto Darwin sa che egli colloca la lotta per la sopravvivenza in un universo che si è già ben distaccato dal muro rappresentato dalla complessità così modesta del batterio, ovvero dal muro dell’unicellularità. L’unicellularità in certo senso non è che il primo passo verso la complessità (e la molteplicità, la variabilità), quello che prepara la strada alla complessità. Un primo passo lunghissimo, e lentissimo da compiersi, ma proporzionato alla qualità e all’ampiezza del salto dalla semplicità nella complessità. Beninteso: forse la vita, da qualche parte dell’universo – semmai ce n’è di vita nell’universo, e non è detto affatto che ce ne sia, specialmente in forme complesse – può non farcela a discostarsi dal muro rappresentato dalla semplicità del batterio; ma in questa eventualità non c’è chi non veda come, specialmente se rapportata allo sviluppo che ha avuto sul nostro pianeta, questa sua semplicità rappresenti ad un tempo, per così dire, la realizzazione e la conclusione, per non dire proprio la tomba, della vita stessa. La vita è infatti un po’ come uno stadio di calcio che ha bisogno di riempirsi ogni domenica per giustificare la sua funzione, la sua stessa esistenza. Anche la vita, per non smentire se stessa, per non tornare indietro fino a schiacciarsi contro il muro biologico che la separa dalla non vita, ha bisogno di riempirsi di vita come uno stadio di spettatori, ovvero di complessità, molteplicità, variabilità. La complessità, essendoci le condizioni affinché lo stadio della vita si riempisse, è stata a un tempo la sua fortuna e il suo compimento, il suo caso e la sua necessità. Paradossalmente, non c’erano alternative, una volta che la semplicità del batterio aveva colonizzato la terra e la biosfera, strutturando una molteplicità di ambienti che potevano ospitarla, alla complessità.
Ma in quest’ottica dei “posti liberi” esistenti nello stadio della vita e che non potevano non esistere per far posto alla complessità, forse non è neppure così rispondente al vero l’immagine di una guerra di tutti contro tutti, ciascun organismo in lotta contro tutti gli altri per occupare e ampliare il suo spazio, la sua nicchia, le sue possibilità e potenzialità riproduttive che Darwin trasse direttamente da Malthus. La necessità della lotta per la sopravvivenza di cui parla Darwin è sostanzialmente quella di un mondo vivente già straordinariamente affollato di complessità. La complessità si è aperta il varco nel mare della semplicità batterica non soltanto grazie alle condizioni ecologiche create dagli stessi batteri nel lunghissimo periodo di tre miliardi di anni, ma anche grazie alla cosiddetta legge dei rendimenti crescenti, formulata per primo dall’economista Brian Arthur. Questa legge, in quanto nata nel seno dell’economia, è riferita dal suo autore alla sfera economica. Ma qualcosa di molto importante è capace di suggerisci anche e proprio a proposito del perché, della ragione e del successo, della complessità. L’interrogativo dell’economista Brian Arthur è del tipo: “Perché le aziende ad alta tecnologia” si sono “azzuffate per trovare un posto nella Silicon Valley attorno a Stanford, piuttosto che ad Ann Arbor o a Berkeley?”. La risposta è la più semplice e decisiva al tempo stesso, in quanto va ben al di là dello specifico economico. “Perché in quel luogo c’era già un buon numero di società ad alta tecnologia. A chi ha sarà dato”. A un certo punto si producono degli addensamenti, dei veri e propri poli di grande complessità – industriali e produttivi, in questo caso – semplicemente perché qualcuno ha cominciato a fare, con successo, qualcosa in un determinato ambiente. Non per altro. Chiaro che se questo qualcuno non avesse avuto successo nessuno lo avrebbe seguito o, per bene che andasse, solo qualche altro intemerato ci avrebbe riprovato molto tempo dopo, quando giusto il tempo avesse cancellato anche il ricordo di quello sfortunato precedente. Ma il successo crea l’emulazione e quest’ultima finisce per ampliare a dismisura le dimensioni del primo. Ciò è vero sempre e comunque, in economia come in biologia, nel gioco del calcio come sul palcoscenico dell’evoluzione. Questa legge dei rendimenti crescenti, che a un certo punto ha cominciato a premiare proprio la complessità grazie al successo ottenuto da qualche forma di vita più complessa di altre, e che può aver dato luogo a una vera e propria corsa alla complessità biologica simile alla corsa produttivo-tecnologica che ha portato gli uomini a compiere negli ultimi cinquant’anni un cammino più lungo di tutta quanta la storia precedente (un Cambriano tecnologico anziché biologico, in fondo), comporta ben più un allargamento di possibilità che non un loro restringimento, un dare piuttosto che un togliere opportunità e occasioni, pur se tutto ciò sembra – ma non lo è – in opposizione allo spirito stesso di questa legge di provenienza evangelica: a chi ha sarà dato.
Il punto è che in molti, in moltissimi possono avere, e non in pochi. Non sussistono dubbi, visto l’esito ch’è sotto gli occhi di tutti, sul fatto che deve esserci stato un periodo, quello dello sviluppo della complessità e della molteplicità delle forme di vita, in cui a molti, a moltissimi organismi viventi è stato dato, e che quindi hanno potuto affinarsi e affermarsi più in una sorta, se si può dir così, di interazione reciproca che non nella lotta per vicendevoli annientamenti. Il darwinismo, e l’evoluzionismo tout court, sembrano entrare in qualche difficoltà se considerati in rapporto non tanto con la complessità in sé quanto piuttosto con la sua spropositata affermazione, con l’affermazione della varietà, del moltiplicarsi ininterrotto e brulicante delle diverse, le più lontane e le più differenziate tra di loro, eppure tutte coabitanti e in qualche modo interagenti, forme di vita. Un trionfo di queste dimensioni della complessità e della varietà, infatti, non si concilia fino in fondo con il principio di una spietata e ininterrotta lotta di ciascuno contro tutti. Se questa lotta fosse stata in atto sin dall’origine con la spietatezza che le viene comunemente attribuita la molteplicità non avrebbe potuto attecchire, non almeno nella misura in cui invece lo ha fatto, sarebbe stata contrastata e risospinta indietro di continuo da quella stessa spietatezza che non tollera contendenti e che, se appena può, toglie di mezzo, leva dal mondo, esclude dalla vita – anzi, per dirla con Malthus, “dal banchetto della vita”. Mentre invece abbiamo assistito a un’inclusione, piuttosto che a un’esclusione, di forme di vita. Il successo non effimero delle singole forme di vita e della loro molteplicità, questo è il punto, è la costante dell’evoluzione in quanto, come abbiamo detto, c’è, in linea generale, il posto e – essendoci il posto – non tutto è lotta all’ultimo sangue né tra gli individui di una stessa specie né tra individui di specie diverse. Come dire, insomma, che il caso non è così casuale e la selezione naturale non così compiutamente selettiva come ce li hanno descritti e come continuano a descriverceli biologi evolutivi, paleontologi, genetisti e varia umanità scientifica più o meno rigorosamente darwinista-monodiana e al fondo malthusiana.
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