mercoledì 14 ottobre 2009

Botte e risposte

E lanci di Mont-Blanc. Era ora che al Corriere iniziassero a farsi sentire. Su, forza, osate un pochino.

3 commenti:

Stefano ha detto...

http://www.ilfoglio.it/camillo/4644

Stefano ha detto...

Certo le notizie non le abbiamo mai nascoste. Mai. Ma neanche strumentalizzate e piegate alle esigenze di parte, come accade in quasi tutto il panorama editoriale. I fatti ormai non sono più separati dalle opinioni, sono al servizio delle opinioni. Le inchieste di Bari sono state rivelate dal Corriere . Abbiamo informato, correttamente, senza mistificare la realtà com’è prassi quotidiana sulla stampa e sul video. Ma non abbiamo mai partecipato alla guerra civile mediatica che si è scatenata subito dopo. Per rispetto dei lettori, innanzitutto, che non vanno assoldati e iscritti d’ufficio a un partito o all’altro.

Il Corriere ha ospitato tutte le opinioni, nel solco della sua migliore tradizione. Ha elogiato il governo quando se lo meritava. Non poche volte. Lo ha criticato quando a nostro giudizio sbagliava. E’ successo, e in forma anche più dura, con i governi di centrosinistra. Ha praticato e difeso una libertà di stampa responsabile. Le querele ai giornali sono legittime, per carità, ma costituiscono spesso un errore, a mio personale giudizio, se vengono da chi ha alti incarichi istituzionali e di governo. Chi scrive ne ha collezionate, tra querele e cause civili, ben 180. E nei giorni scorsi ha perso in appello contro gli avvocati del premier Ghedini e Pecorella. Dunque, avevano ragione loro a sentirsi diffamati da un mio scritto del 2002. La sentenza è chiara e la accetto, senza pormi il problema se il giudice fosse di destra o di sinistra e senza cambiare idea rispetto a quello che ho scritto. Sbaglierò, ma non ho mai pensato minimamente che per difendere la mia libertà d’espressione fosse necessario scendere in piazza.
Il Corriere è un giornale liberale e moderato, una delle istituzioni di garanzia di questo Paese. Non vuole partecipare allo scontro fra due fazioni, in un’Italia ridotta a una desolante arena nella quale si sta perdendo, insieme allo stile e al decoro, anche un po’ il lume della ragione. Vuole occuparsi dei problemi reali del Paese, informando correttamente i cittadini, rappresentando al meglio «quell’Italia che ce la fa», che lavora, produce, esporta, studia. Un grande Paese che non merita giudizi sommari. Senza muoverci di un millimetro da quello che consideriamo un nostro dovere verso i lettori.
fdb

Stefano ha detto...

Repubblica è un giornale di successo, generalmente fatto bene, che ha insegnato tante cose alla cultura e al giornalismo italiani, che ha fatto politica democratica e di sinistra lungo gli anni, ha espresso in parte il dissenso laico, ha organizzato il consenso lobbistico a interessi quasi sempre riconoscibili, quel consenso senza il quale una democrazia di mercato non funziona, e ha promosso parte grande del teatrino in cui siamo immersi da quasi mezzo secolo, comprese le lunghe guerre al Cinghialone prima e poi al Caimano.
Tanto di cappello.

Ma Repubblica, come ha ricordato ieri il direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli, ha anche coltivato molte ambizioni sbagliate. Voleva essere il giornale di un editore puro controllato dai giornalisti che lo avevano fondato e dai loro amici più cari, e Scalfari si vantò spesso di questa felice circostanza o vocazione; poi cedette interamente le quote, ovviamente per soldi, “per la dote delle figlie” (come disse).
Era per la finanza laica, per l’eredità di Raffaele Mattioli e poi di Enrico Cuccia, ma Scalfari appoggiò Michele Sindona quando lo giudicò conveniente.
Scalfari sputa fuoco contro Berlusconi da molti anni, ma “il gruppo” non ebbe ritegno, all’origine, a contrattare vantaggi editoriali e finanziari nella piccola reggia di Arcore, al suono della Rapsodia in blu eseguita da Fedele Confalonieri.
Quella che Cossiga chiamava “la nota lobby” applaudì quando il concorrente di via Solferino fu quasi messo in ginocchio dalle vicende legate allo scandalo della Loggia P2, dopo che “il gruppo” seppe trarre qualche più o meno normale surplus dalla gestione piduista del Banco Ambrosiano.

Le ambizioni sbagliate di Repubblica – giornale born to kill – si conoscevano tutte, ma la novità è che con sistematica perfidia, con calma e apparente mitezza di modi, ora è il direttore del Corriere a ricordarle quasi ogni giorno, senza mollare l’osso di una avvincente polemica per la prima volta a due voci. L’oppressione del Corriere è più che trentennale, dura insomma da tempo immemorabile.
Negli ultimi vent’anni, più o meno sempre sotto l’influenza di Paolo Mieli, quel giornale è stato nei fatti, per le sue scelte e per il modo in cui fu concepito il suo profilo, per le firme e lo stile, un avversario dello scalfarismo in costanti e bene argomentate battaglie civili e culturali.
Ma lo sfizio di radere la barba monumentale del Fondatore, di attaccarlo sulle radici del suo percorso, sui peccatucci obliterati e altre tentazioni non respinte, questo il Corriere non se lo era ancora mai preso con tanta sfacciataggine.
Era ora. Da tempo attendevamo un deciso rinnovamento del repertorio.

Giuliano Ferrara