...quando lo Stato mette in discussione la possibilità di agire in maniera viziosa anche se questo comportamento non è aggressivo (mentre, nella sua saggezza, San Tommaso d’Aquino aveva ben chiaro che vi sono peccati che non sono reati), ci si trova su una china che conduce verso prospettive totalitarie.
Da economista della scuola austriaca e quindi attento alla lezione di Mises e Hayek, l’autore de L’economia della proibizione evidenzia che «la domanda di politiche interventiste quali quella della proibizione nasce dalla percezione che il processo di mercato ha fornito risultati insufficienti o che non correggerà le sue inefficienze». Il proibizionismo o è illiberale o non è, dato che incarna una pericolosa presunzione del ceto politico, che punta ad arrestare ogni evoluzione imprenditoriale: «Il processo di scoperta del mercato porta alla circolazione di prodotti meno costosi, di qualità migliore e più sicuri. La proibizione pone fine al processo di scoperta e lo rimpiazza con un mercato nero e un processo burocratico, ognuno con i suoi mali». È come se il mondo si fermasse e nessun futuro migliore fosse possibile. Gli imprenditori escono di scena e il loro posto è preso da politici e burocrati. Ma come rilevò Mises, «se si abolisce la libertà dell’uomo di determinare il proprio consumo di beni, si tolgono tutte le libertà».
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