Bisogna diffidare di se stessi, sorvegliare le proprie inclinazioni e stare sempre in guardia contro la propria natura” (Memorie di Luigi XIV)
“Quando si assume un ruolo come questo la vita cambia. I cattolici la chiamano Grazia dello Status…” (Silvio Berlusconi, primavera 1994)
Dell’inizio. Si comincia così: c’era (una volta) un re. Poi si continua così: e c’è (ancora) un presidente del Consiglio. Uno era francese, l’altro è italiano; quello si chiamava Luigi, questo Silvio. Il primo fu noto (e una certa notorietà, diciamo, ha ancora) come il Re Sole; il secondo più democraticamente ondeggia tra Presidente Operaio e Presidente Imprenditore – e a tacer del resto. Ma un primo indizio – traccia labile, impronta leggera, criptico enigma: sorta di “Codice da Arcore” – che riconduce il rutilante Silvio all’abbagliante Luigi del XVII secolo è possibile rintracciarlo nell’antica raccomandazione che il Cavaliere usava indirizzare ai seguaci: “Bisogna sentirsi con il sole in tasca!”. Non voleva certo istigare a mettersi il Re Sole in saccoccia, neanche fosse Franceschini e non un acclarato pari grado, anche se una tentazione, quando una gloria pareva chiamarne sempre un’altra, magari c’è stata. Tanto più che era a costo zero, senza rimetterci un solo coperto (che sono contati e sono ambiti) di palazzo Grazioli. Ma siamo solo l’inizio. L’intreccio tra l’uomo che protesse Molière e quello che valorizzò Apicella corre da secolo a secolo: passione per passione, atto per atto, fobia per fobia. La grandeur come un laura’ de la Madona.
Dell’inizio avec Dieu. Alla nascita – avvenuta nello stesso mese di settembre, pur se in anni diversi, s’intende: il 5 per il francese, il 29 per l’italiano – il piccolo Luigi fu immediatamente appellato Dieudonné o Deodatus: insomma, Dio ce l’ha dato. “Si disse anche – scrive Antonia Fraser in “Gli amori del Re Sole” (Mondadori) – che il sole era eccezionalmente vicino alla terra, come per salutare il futuro sovrano”, praticamente alla portata della tasca del futuro presidente del Consiglio. Nel momento in cui vide la luce il piccolo Silvio nessuno pubblicamente ebbe una tale opportuna prontezza di riflessi, ma in seguito il richiamo all’Unto del Signore ha perlomeno, prima di qualunque finale di partita, riallineato nella volontà celeste i due destini. Fatto sta che a Luigi mai venne in mente di farsi chiamare, neanche per scherzo (e mica aveva manifesti da stampare a ogni elezione) Re Operaio o Re Villano. Fu Deodatus e Sole, e basta. La funzione di Unto, quindi, meglio si applica alla società moderna.
Della nobiltà della caduta (dei capelli). “Il Re Sole a venticinque anni portava quindi i capelli lunghi, sparsi sulle spalle e sulla schiena, con qualche ciocca a tirabaci sulla fronte: ed è in questo modo che Le Brun l’ha dipinto, come un re galante, che il Bernini l’ha scolpito, come eroe, e sempre in questo modo Nocret o Werner l’hanno rappresentato, come l’Apollo: perché un dio può anche essere nudo, ma non avere capelli corti. Così, nel quadro, Luigi XIV scopre il petto, ma non il cranio. Orbene, il Re Sole fu colpito, poco dopo che Le Brun lo ebbe dipinto, da una calvizie precoce. Suo nonno Enrico si sarebbe adattato. Il suo avo Francesco avrebbe potuto inaugurare per due o tre secoli un’Europa rasata. Luigi XIV scelse la parrucca. Che l’avrebbe avuta vinta su tutte le capigliature”. Questo è possibile leggere nel bel libro di Philippe Beaussant, “Anche il Re Sole sorge al mattino” (Fazi). E ciò letto, è possibile subito intendere quale fraternità, quantomeno tricologica, possa a distanza di secoli legare ancora Sovrano e Cavaliere nella dura tenzone contro l’avanzata della calvizie. Non avendo Sua Maestà a disposizione copertine di Panorama, doveva necessariamente ricorrere alla bravura dei mastri parrucchieri di corte, e del resto Berlusconi non può certo entrare a Palazzo Chigi con in testa un trionfo di boccoli e cipria. Dunque, una comune pena che attraversa i secoli e valica le Alpi. La lotta ai capelli (intesa all’assenza degli stessi), unisce simbolicamente il Donato e l’Unto: ove Luigi innalzò la parrucca, Silvio impiantò nuovo pelo; dove uno si protesse con la regalità, l’altro scelse la bandana. La sommità della testa pare allora il punto più vulnerabile, e insieme il più considerato, dai due uomini di stato. Se le Chevalier ha avuto modo di lodare il pettinino a maglie fitte, che meglio valorizza la deprecabile penuria, le Roi fece infinitamente meglio. “La parrucca si vede, deve vedersi. Cessa di essere un ripiego, un riempitivo, diviene un ornamento. Si afferma come parrucca e non si dissimula più come capelli finti. Poiché Luigi XIV era il Re Sole, avrebbe fatto della parrucca il segno della sua grandezza e il suo lascito al mondo (…) Di un trucco, Luigi faceva una verità, e ogni uomo degno di questo nome avrebbe portato ormai sulla sua testa un giardino all’italiana invece di un semplice orto” (Beaussant, “Anche il Re Sole sorge al mattino”). Così dovrebbe funzionare un maggioritario ben fatto. Nell’indeterminatezza attuale, Silvio invece non riuscirebbe a imporre un tirabaci neanche al ministro Ronchi: identica volontà tricologica, condizioni politiche troppo diverse.
Della danza, della musica e di altre sciocchezze. Protettori entrambe delle arti – da quella di La Fontaine a quella delle veline, dal canto alla danza – tanto Luigi quanto Silvio hanno dato prova di eccellenza, pur nelle mutate situazioni. Le gazzette reali del XVII secolo sapevano certamente apprezzare e degnamente raffigurare gli sforzi reali. Ecco il resoconto di un ballo del sovrano: “Senza pari eleganza! Gloriosissima andatura! Quale mai del ciel creatura si vedrà a sua somiglianza?”. Per Silvio, nella veste di appassionata vocazione di stornellatore apicelliano, le cronache sono state incomprensibilmente più caute – pur vantando lui un intero cd. Anzi, ecco l’Espresso che lo visualizza in biacca bianca, “come Tony Manero”, in compagnia di Simon Le Bon e bone varie mentre al microfono attacca con “L’ultimo amore”, subito dopo si scatta in pista al grido di “Gioca jouer”. Ma come Silvio si traveste da John Travolta, Sua Maestà si abbigliava come Giove, come Alessandro, come Apollo, “quando danza Apollo è se stesso, ed è se stesso che espone agli sguardi di chi assiste” – comunque sempre lucente Sole, “con jetés-battus, tombés-jetés, scivolate a tempo, passi in controtempo” – una faticaccia che si fa prima a far ministro la Brambilla. In soli nove anni, dal 1661 al 1670, si registra nel volume di Beaussant, “il Re Sole danza una dozzina di balletti, in tutto ventinove ruoli”. Parimenti, quando canta con Apicella, la stessa identica cosa si può dire di Silvio, “è se stesso ed è se stesso che espone agli sguardi di chi assiste”. Chi assiste è la corte – ché sempre una corte accompagnò il real ballerino nei suoi passi non meno del presidente canterino nei suoi acuti. Nessuno dei due nega protezione all’arte e agli artisti. Stoico il tentativo del Signor Presidente di portarne illustre rappresentanti nelle istituzioni, storica la battuta con la quale Sua Maestà avvertì Molière dei malumori dei bigotti per le sue commedie: “Non irritate i devoti, è gente implacabile”.
Della presa del potere e della salita sul predellino. Il 10 marzo 1661 Luigi XIV, che è già re da quando aveva cinque anni – ora ne ha ventidue ed ha ancora i capelli – prende il potere. Letteralmente, come racconta un vecchio bellissimo film televisivo di Roberto Rossellini – appunto “La presa del potere da parte di Luigi XIV”. Quasi un colpo di stato. A favorirlo, la morte del cardinale Mazzarino, potentissimo primo ministro. Scriverà in seguito nelle sue memorie: “La morte del cardinale mi obbligò a non differire più quello che desideravo e insieme temevo da tanto tempo: la presa del potere”. Per lo storico Pierre Goubert di questo si trattò, “tutto rimase come prima, non cambiò nulla, salvo l’uomo che era al comando”. Il cadavere del cardinale primo ministro è ancora caldo. I potenti del regno – cancelliere, ministri, nobili – si affollano intorno al giovane re, cercano di sapere chi sarà il successore. “A chi dovremo rivolgerci ora, maestà?”. E quello: “A me!”. Li convoca nella camera della regina madre: “Voi mi aiuterete con i vostri consigli, quando ve lo domanderò… Signori, vi diffido dal firmare anche un solo salvacondotto o un passaporto, senza mio ordine; vi ordino di rendere conto ogni giorno a me in persona, e di non favorire nessuno nei vostri incarichi…”. E dunque: “Ora sapete le mie volontà. Tocca a voi adesso, signori, eseguirle”. Ha scritto Guido Gerosa nel suo “Il Re Sole” (Mondadori): “Diventavano dei sorvegliati speciali dopo aver goduto per anni di un’autonomia di un potere illimitati”. Silvio III (ma è sempre lo stesso) prese il potere (o almeno ci provò) il 18 novembre 2007. Ha già settantuno anni, è stato due volte primo ministro, ha già dei nuovi capelli. Più prosaicamente – non disponendo né di un castello né di un cadavere di cardinale né di ministri da intimorire – sale sul predellino di una macchina a piazza San Babila e annuncia che sta per arrivare il terremoto: scioglimento di Forza Italia, un partito nuovo per tutti “coloro che ne vogliono far parte”. Perciò: chi c’è c’è. Ma per spiegare complicazioni e caratteri. Dice il Cavaliere: “Non so comandare, so convincere o chiedere con gentilezza” – e campa cavallo, allora. E infatti a volte quasi non riesce a fronteggiare neanche il ministro Rotondi. Disse poco invece il Re. Ma fece. Per prima cosa fece dimettere l’arcivescovo di Parigi, il cardinale di Retz, che aveva ambizioni politiche. Poi preparò la rovina del ministro delle Finanze, il potente Foucquet, per sostituirlo con Colbert. Quindi lavorò per ridurre a quasi niente il potere dei nobili. Prese in mano le leve del comando e non le mollò più. Spiegò al figlio: “Non lasciatevi mai governare, siate voi il padrone”. Per Voltaire comincia così “le grand siècle”: qualcosa di più del “Magic Italy” che si preannuncia.
Della corte e dei cortigiani. Dell’inutilità di tante chiacchiere e di troppi poteri intorno, le Chevalier non è meno convinto di quanto lo fu le Roi. E se Luigi pose a fondamento del suo potere la riduzione della nobiltà a corte, dei potenti del regno a cortigiani – tutti trasferiti in massa nello splendore abbagliante e inutile di Versailles, costretti a combattersi tra di loro per un sorriso o un posto a tavola accanto al sovrano, oziosi e rammolliti, ridotti a spettatori di un’altra grandezza – Silvio ha sempre avuto ben chiaro – e avendo ben presente il teatrino della politica – che se voleva combinare qualcosa gli serviva un partito di nome ma non di fatto, una classe dirigente delle più varie attitudini e intelligenze, ma sempre con gli occhi puntati sull’Apollo di Arcore. Il problema è ancora il carattere: il Sovrano lo fece, il Presidente ci prova. “Che tutto sia fatto secondo la nostra grandezza!”, ordinava il primo. “Sono troppo buono, dovrei essere più cattivo. Ma non mi riesce”, mormorava il secondo già alla fine del 1994.
Del cardinal Giulio e del cardinal Gianni. A due prelati di gran classe, tanto il Re di Francia quanto il Primo Ministro d’Italia devono una parte delle loro fortune. Quello di Luigi era in tonaca reale (anche se forse poco praticata: “Si dice che il signor cardinale vuol diventare Papa e che a questo scopo si farà prete”, s’ironizzava quando cominciò a circolare la voce che il cardinale Giulio Mazzarino mirasse al papato), e se per lunghi anni cercò di mantenerlo in una sorta di limbo adolescenziale, negli ultimi mesi, prima di morire, fu fondamentale nell’indicare al giovane Re come sopravvivere politicamente e come radicare il suo potere. Gli lasciò persino il suo intero patrimonio, immenso – denari, abbazie, titoli, centinaia e centinaia di capolavori d’arte. “Era un ministro assai abile e assai accorto che mi amava e che io amavo, e mi aveva reso grandi servizi ma i cui pensieri e i cui modi erano naturalmente molto differenti dai miei”. Parole che al Presidente vanno bene pure per il suo personale cardinale – non in tonaca reale ma di sicuro praticata: Gianni Letta. I due non potrebbero essere più diversi, e pure se Letta fu una volta ripreso in calzoncini mentre lo seguiva in una corsettina salutista, preferirebbe chiaramente trovarsi in una Casa del popolo che a Villa Certosa. Ma nonostante tali differenze, non è un caso che Silvio l’abbia così consacrato agli occhi della nazione: “E’ un dono di Dio all’Italia”. Ma principalmente è un dono di Dio al Cavaliere, per non finire ramingo tra Capezzone e Quagliariello. Come Mazzarino fu dono di Dio (che poi Dio lo sapessse è tutta un’altra questione) per il suo Re.
Della villa e del castello. Sia Sua Maestà sia Sua Eccellenza hanno cercato di creare un luogo di stupori, di meraviglie, di sbalordimento. Di fontane e parchi, alberi e teatri, macchine ingegnose e scenografie mozzafiato. Antonio Fraser racconta così Versailles in “Gli amori del Re Sole”: E’ il trionfo della sovrabbondanza sia all’interno che all’esterno (…) immense aiuole di fiori in cui ogni pianta veniva sostituita quotidianamente, moltitudini di aranci – gli alberi prediletti del re – in vasi d’argento, terrazzi dai quali la corte era costretta a ritirarsi la sera perché sopraffatta dall’intensità del profumo di mille tuberose, denaro che scorreva come l’acqua dalle fontane di cui il sovrano amava tanto circondarsi, al punto che quegli stessi giochi d’acqua divennero un simbolo di potere”. Come disse la duchessa d’Orléans, “tutti a corte cominciano a ridiventare bambini”. E dunque, ecco adesso Villa Certosa, il vulcano finto e il finto gelataio, le pizze e le giostrine, i mille e mille cactus e gli ulivi secolari, le rose e il finto anfiteatro greco-romano, il finto nuraghe e l’agrumeto, il laghetto con i cigni e la barchetta e la “roccia di Pinocchio”. Persino il belvedere con la panchina dove il Cavaliere vorrebbe ritirarsi per meditare – saggia decisione, purtroppo pochissimo praticata. Ma se Versailles fu teatro del potere, Villa Certosa è innanzi tutto proprietà. Nella reggia ha tenuto ultimamente un discorso alle Camere riunite Sarkozy; è difficile che un prossimo capo di stato italiano prenda la parola in Costa Smeralda. Ma identica, almeno, apparve all’inizio la volontà. Ha scritto quel grande e mirabile pettegolo di Saint-Simon nelle “Memorie”: “Amò in ogni cosa lo splendore, la magnificenza, la profusione. Per politica fece di questo suo gusto una massima di vita imponendola dappertutto a corte: fare sfoggio di lusso nell’abbigliamento, nei pranzi, negli equipaggi, nelle costruzioni e al gioco significava piacergli, ed erano occasioni perché rivolgesse la parola ai cortigiani”. Per Ernest Renan si trattava, soprattutto, della “grande meraviglia della Francia regale”. Secoli dopo, a Villa Certosa, Sandro Bondi vedrà “famigliole” vagare, e vagonate di foto raccontano anche altro. Ma sempre, vicino alla magnificenza c’è peccato.
Delle donne e delle amanti. E dunque, a proposito di peccato, qui siamo. Degli amori del Re Sole da secoli si parla e da sempre si legge – manco c’era Repubblica, quando si è cominciato. Primi Visconti, un italiano che ha lasciato un lungo memoriale sui suoi anni alla corte di Luigi, annotò: “Tutte le donne di Francia volevano diventare le amanti del Re. Un gran numero di donne, sia sposate sia nubili, mi hanno detto che questo non offenderebbe né i loro mariti né i loro padri e nemmeno Dio stesso”. Ben peggiore era la valutazione di Saint-Simon: “Si tratta degli amori del Re. Il loro scandalo ha riempito l’Europa, confuso la Francia, scosso lo Stato, e ha senza dubbio attirato maledizioni sotto il peso delle quali il Re si trovò sull’orlo del baratro…” – e pare cronaca fresca, a dirla tutta, editoriale domenicale di Scalfari a voler mutare il Re in Cavaliere, quello che fu in quello che è. Ma spesso le amanti di Luigi XIV furono anche storia, intelligenza femminile nel vortice (e al vertice) della corte – come nell’affascinante racconto che ne fa Benedetta Craveri in “Amanti e regine” (Adelphi). Se poi con il passare dei secoli bisogna registrare un certo predominio della presenza di Angela Sozio rispetto a Madame de Maintenon, c’è un po’ dell’uomo e un po’ del destino beffardo e baro. Certe amanti di Luigi si ritirarono in convento, oggigiorno scarseggiano tarde vocazioni – e Silvio si è dovuto sempre accontentare delle zie suore – e abbondano i videotelefonini. Ma pure, il sovrano che certo praticava e nemmeno si nascondeva, raccomandò a suo figlio: “Nulla è pericoloso quanto la debolezza, di qualunque natura essa sia…”. E certi piccoli particolari – oltre a quelli, ecco, più banalmente intuibili – segnalano la stretta relazione ideale, nel campo, tra Cavaliere e Sovrano. Se Berlusconi ha avuto modo di riprendere l’abbigliamento di una giornalista Rai e avvertire una cronista, a Montecitorio, a non prendere freddo avendo l’ombelico scoperto, il Re Sole segnalò in una situazione per niente simile ma molto similare: “Il suo abito fa schifo, ma lei è molto bella”. E comunque, di fronte a mormorii e illazioni e preoccupazioni (ma tutto molto velato: per dire, a Luigi nessuno pose dieci domande né lui si sognò di rispondere a mezza), piuttosto che sul soccorso di “Chi” il Re potè godere di quello, onestamente non meno incisivo, del suo amato Molière per bocca di Don Giovanni: “La bellezza mi conquista dovunque la trovo, e mai cedo tanto facilmente come alla dolce violenza in cui essa ci trascina”. Certo, fino a Bari forse manco Molière si era spinto.
La pupa e il secchione
2 mesi fa
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