Dopo aver sezionato l’Onu e le sue debolezze, Linda Polman è tornata al giornalismo d’inchiesta analizzato al microscopio il volontariato, il mondo delle organizzazioni umanitarie che, secondo la reporter olandese (insegna Giornalismo a Utrecht), costituiscono L’industria della solidarietà (Bruno Mondadori, pagg. 214, euro 16).
Signora Polman, la «bontà» è un business?
«Il punto è questo: le organizzazioni umanitarie vanno nelle zone di crisi con la loro agenda, i loro interessi, i loro obiettivi».
Come aziende che devono fare profitti?
«In un certo senso sono come aziende. Le Ong sono in competizione tra di loro, proprio come le aziende. Per sopravvivere nel mondo della solidarietà le organizzazioni devono fare a gara per le sovvenzioni dei donatori. Chi dona i soldi offre contratti per progettare e costruire scuole, campi per rifugiati, centri per lo smistamento delle derrate alimentari, riparare strade e ponti. E sceglie l’organizzazione umanitaria in base all’efficienza, alla rapidità, alla convenienza ma anche alla notorietà data dalla televisione. E una volta ottenuto il contratto c’è subito un secondo problema da risolvere: l’Ong deve cercare di rimanere nell’area di crisi il più a lungo possibile».
Per raggiungere i suoi obiettivi umanitari?
«No, perché stare lì, in zone molto disagiate, comporta dei costi. Devi assumere personale, devi affittare uffici, comprare apparecchiature, pagare il trasporto aereo e le comunicazioni via satellite. E i contratti per le donazioni di solito hanno una durata breve, 3 o 6 mesi. Ne segue che le organizzazioni devono “promuovere” costantemente la loro causa per rientrare dall’investimento. Si può immaginare quindi quanto lavorino duramente per accreditarsi e garantire la propria sopravvivenza, preoccupandosi costantemente dei costi e dei soldi».
Preoccupazioni che con la filantropia c’entrano poco...
«È la conseguenza di un sistema che muove miliardi e che conta un numero esorbitante di organizzazioni in competizione tra loro per spartirsi quel denaro: circa 37mila secondo le indicazioni dell’Onu. I soldi sono veramente tanti, se si mettessero insieme, le organizzazioni umanitarie formerebbero il Pil della quinta potenza mondiale!».
Ma che posto ha la solidarietà in questa industria della bontà?
«Io penso che queste attività nascono veramente da motivazioni idealistiche di solidarietà per le popolazioni svantaggiate. Ma per poter stare dentro quel business, devi adeguarti alle regole del gioco. Ed è un gioco molto competitivo. Quindi la domanda alla fine non è più “Dove posso andare per aiutare la maggior parte di persone possibile?”, ma “Dove devo andare per ottenere più fondi e aiuti economici possibili?”. E il posto che assicura più aiuti non è necessariamente il posto del pianeta che ne ha più bisogno, ma spesso è solo il luogo in cui i benefattori hanno più interessi economici ad apparire tra i benefattori...».
Insomma la solidarietà nasconde molte ombre.
Spesso succede che gli aiuti non vadano agli affamati, ma agli affamatori.
«Che si tratti di democrazie, dittature o governi militari, sono sempre le autorità locali a decidere a quali condizioni e in che modo gli aiuti economici devono essere spesi. Se la loro decisione è rubare un po’ o gran parte dei soldi, gli aiuti umanitari li aiuteranno a rimanere al potere. Il problema è che i disastri umanitari non succedono mai nelle democrazie, ma in posti orribili con pessimi governi o dove i governi sono sostituiti da una banda di ribelli o guerriglieri armati di kalashnikov. Ed è uno scandalo tremendo che gli aiuti servano a questa gente per mantenere il potere».
Vuol dire che gli aiuti umanitari servono a prolungare le emergenze che invece dovrebbero risolvere?
«Il denaro e gli aiuti sono un business anche per le parti in guerra. Gli aiuti sono diventati un ingrediente fisso nelle strategie di guerra, ognuna delle parti in causa cerca di aggiudicarsi la fetta più grande di aiuti e di fare in modo che i nemici ne abbiano il meno possibile».
Di qui nasce il dilemma del lager nazista...
«Sì, lo racconto nel libro. Immaginiamo di essere nel 1943 e di guidare un’organizzazione umanitaria. Ci chiamano per portare degli aiuti nei campi di concentramento nazisti, ma la condizione è che stia alla direzione di quei campi stabilire quanta parte andrà ai prigionieri e quanta invece andrà al personale nazista».
E il dilemma come si risolve?
«La pratica delle organizzazioni umanitarie non avrebbe dubbi: gli aiuti si porterebbero lo stesso».
Quali sono i difetti più gravi dell’industria della solidarietà?
«Il punto debole maggiore è la competizione economica tra organizzazioni umanitarie. Se lavorassero insieme molti meno soldi verrebbero sprecati per la sopravvivenza delle organizzazioni stesse, e ci sarebbero più fondi per il sostegno alle popolazioni. Se le Ong fossero una sola cosa, sarebbe più difficile per i dittatori e i signori della guerra manipolarle.»
È vero che le Ong, per accreditarsi tra i supporter finanziari, pagano anche dei professionisti per fare da testimonial?
«Il colonnello Ojukuwu in Biafra si fece assistere da un ufficio di pubbliche relazioni di Ginevra per invitare i giornalisti europei a raccontare e filmare la fame nel Biafra. Ovviamente il colonnello poi confiscò parte degli aiuti per il suo esercito e per comprare armi. Ma anche i palestinesi ricorrono a esperti di comunicazione. Un altro esempio è il regime militare dell’Etiopia. Affamarono un gruppo di persone, sospettate di supportare i ribelli. Una volta creata artificialmente una carestia, chiamarono i giornalisti per venire a riprendere le scene di carestia. Quelle immagini commossero molti benefattori che sovvenzionarono le Ong che poi sovvenzionarono, indirettamente, il regime etiopico».
La fame come show televisivo per attirare aiuti...
«Purtroppo è così. Alcuni gruppi di vittime sono diventati molto esperti su come funzionano le cose qui da noi, nel mondo occidentale: se non compari in tv i benefattori non sapranno che ci sei e quindi le Ong non verranno da te. In molti campi profughi ci sono schermi tv con i programmi della Cnn, in cui gli abitanti vedono come “noi” rappresentiamo le vittime. E grazie alla televisione imparano ad adeguarsi all’immagine che il mondo si aspetta di vedere».
Paolo Brancalini
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