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Il quadro di G8
Il bicchiere è mezzo pieno. Il messaggio sull’inizio della schiarita economica e sull’impegno per una migliore e più controllata organizzazione del mercato finanziario è stato efficace e contribuisce a ridare fiducia alla globalizzazione. Alcuni momenti mediatici, come la stretta di mano tra il presidente americano e il rais libico, hanno più peso di un comunicato diplomatico. La sobrietà imposta dal panorama delle macerie del terremoto è apparsa in sintonia con una fase di forte preoccupazione che attraversa il mondo. Il premier italiano, che era entrato nel vertice che presiedeva per la terza volta nelle condizioni peggiori, ne esce non solo senza i danni pronosticati da tanti malauguranti, ma con un gruzzolo di credibilità internazionale accresciuto e consolidato. Il bilancio che si può trarre ora del summit è solo un bilancio di immagini e di sensazioni ed è sostanzialmente incoraggiante. Quello più materiale, contenuto nei testi dei documenti approvati, è un po’ meno esaltante. Probabilmente non poteva che essere così. Uno dei protagonisti, il presidente cinese, se n’è tornato in patria per guidare una repressione; i grandi paesi capitalistici sono ancora alle prese con una crisi che faticano a dominare, Iran e Corea del nord sono sempre più aggressivi, l’Africa nera muore di fame e di lotte tribali, il corno d’Africa è in mano a pirati e terroristi. L’ottimismo di un vertice in queste condizioni è un obbligo, ma anche una necessaria distorsione della realtà.
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