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Dio non è morto
Dio è morto, scritta da Francesco Guccini nel 1965, incisa dai Nomadi nel ’67, è una delle canzoni simbolo degli anni Sessanta. La Rai, di fronte a un brano che citava Nietzsche nel titolo, passò direttamente alla censura pensando di essere incappata in un esempio di blasfemia. Proprio per evitare problemi, la prima stampa aveva nel titolo un prudente punto interrogativo, e un sottotitolo fra parentesi Se Dio muore è per tre giorni e poi risorge. Al contrario la Radio Vaticana, meno bacchettona dell’emittente di Stato, lo trasmise, e un aneddoto vuole che Papa Paolo VI in persona mostrò di apprezzarlo. Nel frattempo Dio è morto si avviava a diventare un inno della contestazione e del movimento studentesco. Chi aveva ragione? La radio pontificia o i ragazzi con l’eskimo? Entrambi. Guccini invitava al cambiamento ma tutto sommato lo faceva esaltando «valori umani e naturaliter cristiani» come ha scritto l’Osservatore romano. Un mondo, quello del cantautore, lontano dagli eccessi dell’epoca, come egli stesso oggi testimonia.Francesco Guccini, nel numero in uscita della rivista Vita e Pensiero, ripercorre infatti la stesura della canzone (che tra l’altro non ha mai prodotto in studio a suo nome) in un articolo intitolato Dio (non) è morto, la ricerca continua (firmato dal cantautore, con la curatela di Brunetta Salvarani). «Avevo venticinque anni - scrive Guccini - e stavo studiando all’università di Bologna, i primi sit-in e il Sessantotto erano alle porte, era mia intenzione scrivere qualcosa di generazionale». Dio, a quanto pare, non era morto, anzi si sentiva e si sente piuttosto bene: «Il “dio” di cui parlavo era un “dio” con la minuscola, un “dio” laico simbolo dell’autenticità». L’idea era incitare - come accade nei versi finali - al rinnovamento, a «una nuova primavera» giocando su un «registro fra l’apocalittico e l’esistenziale» per trasmettere «la consapevolezza che qualcosa doveva cambiare». Ecco perché il brano se la prende con «tutto ciò che è falsità», cioè «le fedi fatte di abitudine e paura, / una politica che è solo far carriera, / il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, / l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto». Ed ecco perché si conclude con note di speranza: «In ciò che noi crediamo dio è risorto, / in ciò che noi vogliamo dio è risorto, / nel mondo che faremo dio è risorto». «I primi versi - spiega Guccini - sono un’accusa, gli ultimi risentono del pacifismo che c’era allora, ed era una mia risposta a un extraparlamentarismo che sentivo come troppo violento». Una canzone generazionale, al punto che l’autore si stupisce ogni volta che la esegue dal vivo, poiché «i giovani» la conoscono «a memoria, dopo tanti anni». A parte Nietzsche, Guccini cita fra le sue fonti una clamorosa inchiesta del Time realizzata da John T. Elson, Is God Dead? (Dio è morto?), uscita l’8 aprile 1966, quasi a ridosso della conclusione del Concilio Vaticano II; l’incipit della poesia manifesto della beat generation (Howl, Urlo) di Allen Ginsberg, ripreso quasi alla lettera: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia»; e una serie di versi vergati in precedenza e ispirati a T.S. Eliot.
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