mercoledì 5 maggio 2010

La Lega per l'unità d'Italia

L'ultimo capoverso e' illuminante.

Unità d’Italia non conformista

Provocazione: ecco perché le parole di Cavour, le lezioni di Gramsci e la lettura di un vecchio libro del Pci dimostrano che i leghisti rischiano di passare involontariamente alla storia come i salvatori dell’Unità nazionale

La polemica scoppiata sul “dovere” o meno di partecipare alla celebrazione dell’anniversario dell’Unità nazionale ha un carattere per certi versi ingannevole. Un festeggiamento “obbligatorio” e insincero, al contrario di quanto affermato due giorni fa anche da Giulio Andreotti in un’intervista su Repubblica, avrebbe il sapore di una manifestazione convocata con cartolina precetto. D’altra parte, la conversione al valore dell’Unità della nazione è stata abbastanza recente, se si considerano i tempi storici, anche in quegli ambienti che oggi, peraltro legittimamente, se ne fanno i più zelanti sostenitori. Dell’ostilità dei cattolici a una unificazione – che passò per l’abolizione del potere temporale dei Papi – non è neppure il caso parlarne.

Varrebbe forse la pena ricordare che il rientro dei cattolici nella politica, e quindi nello stato unitario, ancora contestato fino al concordato, ebbe un carattere fortemente legato alle autonomie locali, secondo l’interpretazione originale di Luigi Sturzo e quella, più legata alle esperienze del Zentrum tedesco, di Alcide De Gasperi. L’idea di una unità statale legittimata solo attraverso una catena di comunità che dalla famiglia, attraverso le autonomie locali, diventa comunità nazionale, non è un’invenzione dei federalisti della Lega. Anche la sinistra di origine marxista faticò molto a riconoscere il ruolo “progressivo” del Risorgimento, che veniva interpretato, nella migliore delle ipotesi, come una “rivoluzione mancata”, alla quale si era rapidamente sostituto un patto reazionario tra capitale industriale del nord e latifondo agricolo del sud, come si può leggere sia nei sommari testi di formazione interna al Pci sia nelle interpretazioni più sottili che da Antonio Gramsci arrivano a Emilio Sereni.

Più tardi, dopo la Liberazione, il Pci cercò di darsi una veste pienamente “nazionale”, ma tutti sanno la fatica che fecero i dirigenti a imporre alle sezioni, che quasi sempre disobbedivano, di affiancare alla bandiera con la falce e il martello quella tricolore. L’idea di essere “stranieri in patria” per molti anni fu condivisa, seppure per ragioni opposte, sia delle espressioni popolari di origine marxista sia da quelle di ispirazione cattolica, anche per il carattere elitario e centralistico della struttura dello stato. Gramsci, nell’unico intervento che poté pronunciare in Parlamento, sostenne che la massoneria era stata il vero partito unificante della borghesia liberale che aveva realizzato l’Unità nazionale. Della stessa opinione, peraltro esagerata, pur con argomenti opposti, era la rappresentanza cattolica democratica del Partito popolare. D’altra parte sui caratteri dell’Unità nazionale la polemica è stata sempre serrata anche tra i suoi principali protagonisti.

Se si legge il discorso pronunciato in Parlamento da Giuseppe Garibaldi contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, gli insulti di cui coprì Camillo di Cavour, che lo ripagò della stessa moneta, si vede come le interpretazioni del processo risorgimentale fossero già inconciliabili tra i padri della Patria.
La costruzione dello stato risentì fortemente del sostanziale isolamento della classe dirigente risorgimentale dagli strati poveri e contadini della popolazione. Le intenzioni federaliste di natura democratica di Carlo Cattaneo, come il federalismo illuminista di natura liberale di Cavour e di Marco Minghetti, furono travolte dalla preoccupazione per il mantenimento dell’ordine contro il brigantaggio, che portò a una serie di governi extraparlamentari guidati dal partito di corte e dai militari, cui pose fine solo la vergogna delle sconfitte sul campo patite nel 1866.

D’altra parte la sinistra, appena arrivata al governo con metodo trasformista, si convertì rapidamente allo “Stato dei prefetti”, che poi Francesco Crispi idealizzò addirittura in un tentativo malriuscito di imitazione bismarkiana. L’Unità nazionale liberale fu sancita da una serie di plebisciti monarchici, fu ricostituita su nuove basi democratiche dopo il fascismo con un plebiscito repubblicano. Oggi deve ricostruire il carattere unitario che il centralismo prima sabaudo, poi fascista, poi partitocratico ha messo a rischio. Si potrebbe dire paradossalmente che i federalisti della Lega siano i nuovi patrioti involontari, che si rifanno alle tradizioni più nobili del Risorgimento che dileggiano. Non è una novità, in un paese nel quale furono i mazziniani, da Garibaldi a Crispi, a diventare i più fermi sostenitori della monarchia, i liberali di Francesco Saverio Nitti ad avviare le nazionalizzazioni, i socialisti estremisti di Mussolini a guidare la reazione antioperaia, i cattolici allevati nel non expedit a gestire la rinascita nazionale e la secolarizzazione. Non ci sarà da stupirsi se Bossi passerà alla storia come il salvatore dell’unità nazionale, che non vuole festeggiare.

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