“Yes, we can!”, lo slogan elettorale di Gianni Obama Morandi, centra l’obiettivo non solo per semplicità e immediatezza, ma anche per il contenuto e soprattutto per l’immaginario e l’immaginifico che dischiude in chi lo ascolta e lo legge. E’ positivo per ciò che desta. E’ una risposta affermativa, richiama l’apertura e l’ascolto, la disponibilità. E poi il verbo can. Can vuol dire to be able to, potere nel senso di essere capace. Si può leggere in almeno due modi: “Sì che possiamo!”, ad una ipotetica richiesta dell’elettore, e “Certo, noi siamo capaci, abbiamo le capacità per governare”. La frase è compiuta. Ha il pregio della forma e della sostanza.
Come te lo va a tradurre il politicante italiota? “Si può fare”. E’ ancora uno slogan, perché è semplice e immediato. Ma finisce lì. Non ha più significati possibili, e l’unico che possiede ha tre caratteristiche: generico, non compiuto, perdente.
Generico: fare non vuol dire nulla in quanto può voler dire tutto, da cucinare (“Che ce famo due spaghetti?”), a scopare (“Voi scopa’? Se po’ ffa” non mi ricordo in quale film l’ho sentita ma mi riecheggia in testa).
Non compiuto: si può fare…cosa? Un governo, casino, un mondo migliore. Manca l’oggetto, che può essere costruttivo o distruttivo.
Perdente: l’ habitus mentis è negativo, parte in svantaggio e cerca il recupero, vuol dire dai-che-magari-ci-riusciamo-non-abbiamo-ancora-perso.
Il motto socialdemocratico italiano è “non disperiamo di riuscirci”, quello americano è “abbiamo tutte le capacità per vincere”. Insidie della lingua. Una curiosità, andate a vedere: “si può fare” è sia una cooperativa sociale per handicappati, sia un’associazione “culturale” che vuol far diventare brutti e noiosi i miei sogni rispetto alla realtà.
La pupa e il secchione
2 mesi fa
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